L'Ultima Cena, o dell'"ultimo dio"
"I desti hanno un mondo unico e comune, (koinon kosmon),
ma ciascuno dei dormienti si ritira in un mondo proprio (idion kosmon)."
Eraclito, fr. 99
Il gesto artistico di Libera Mazzoleni ri-compone lo scenario dell'Ultima Cena, precipitandolo nell'autismo spaesante di una vicinanza che è infinita lontananza; svuotandolo del senso originario di un congedo che, mentre lascia parole d'amore, chiama a una testimonianza di vita da protrarsi nel tempo e nel solco di una memoria che continuamente rinnova l'esperienza vissuta di una speranza salvifica.
Non più il dolore di una separazione destinale che lascia smarriti, non più il silenzio attento che, accogliendo l'attimo della parola evocatrice di una storia condivisa, si trasformerà in messaggio capace di vincere la morte.
Una tavola imbandita, al centro un vassoio colmo di frutta, ma nei piatti degli invitati non c'è il cibo che dà la vita, ma gli oggetti divenuti le protesi irrinunciabili di un soggetto narcisistico sempre "in rete", perso tra i fili di una trama virtuale percorsa da fantasmi sempre connessi, ma mai presenti allo sguardo, mai vicini nel calore dei corpi.
I dodici commensali giocano con i loro orpelli seducenti, ciascuno chiuso nel suo idios kosmos, nel suo mondo privato, che non è lo spazio intimo del dialogo con se stessi, ma l'arido e cieco mondo dell'isolamento, dell'afonia, del bisbigliare a se stessi fantasie di onnipotenza.
Al centro della tavola, un manichino, "l'ultimo dio", vestito da militare, che, dentro l'oscurità dei suoi occhiali neri, parla con una voce metallica dalla tonalità quasi annoiata, una voce comunque sinistra, che non sollecita ascolto, ma ciniche risate e trova la sua eco solo nei rumori assordanti di una città che è là, fuori, in uno spazio continuamente attraversato e mai guadagnato come luogo d'incontro.
"L'ultimo dio", personificazione esangue, ma potente, dell'illimitato e dell'infinita manipolazione che promette felicità e eternità ai mortali, gli "effimeri" abitatori del tempo.
Il manichino parla, mentre gli invitati alla mensa sono figure quasi mute che si muovono scomposte; con una mano prendono un frutto distrattamente, con l'altra giocano attentamente coi loro oggetti, simboli del nulla che abita i loro cuori e poi si alzano, camminando disordinatamente senza meta.
Il grottesco convito inquieta e disgusta due giovani donne che non riescono più a sopportare lo svuotamento di senso di uno "stare insieme" che doveva essere un invito d'amore e un dono di speranza; con coraggio irrompono in questa scena maschile, dichiarando, con gesti decisi, la fine della farsa della comunicazione.
Del banchetto, del messaggero, degli invitati non resta più nulla, resta solo una tavola vuota coperta di bianco, liberata del nero drappo con cui si presentava all'inizio.
Confusa nel pubblico, l'artista guarda, documenta la scena, ferma in immagine il suo gesto creativo forse per poterlo trasformare in messaggio capace di ri-chiamare, dopo lo spaesamento suscitato, a quel silenzio dell'ascolto da cui può ri-nascere una parola che apre al "koinos kosmos", al mondo comune dell'incontro e dell'autentica partecipazione, dove ciascuno può vivere in presenza dell'altro e accoglierlo come compagno di viaggio verso un futuro sottratto all'indifferenza e alla ripetizione della perdita. Graziella Longoni
|