“Noi esseri umani siamo come sentinelle e non dobbiamo scioglierci da questo impegno, né lasciare il posto.” (Fr. orfici, 6) Quando l’orrore abita i giorni, costringendo la vita a consumarsi e a sfinirsi nel pianto, nel grido, nel silenzio attonito davanti al non senso, nel buio di nascondigli incerti, nell’insonnia e nella paura che flagellano il corpo e svuotano la mente, nella perdita di quanto era familiare, di quanto era familiare,
nell’angoscia
che toglie il respiro, nello smarrimento e nella stanchezza che fa
invocare la fine; quando la violenza dell’orrore cancella la
speranza e riduce il tempo a gelida ripetizione di riti di morte,
la mano fragile di un bambino si protende e, attraversando il velo
del nulla che si è depositato sul mondo, compie un gesto estetico,
capace cioè di esprimere una sensibilità, un modo particolare
di sentire.Quella piccola mano, che raccoglie matite e distende colori
su fogli bianchi, compone forme e traccia segni, facendo nascere
un senso che svela lo strazio e la nostalgia, che dice la morte e
il sogno della vita.
Questo senso prende corpo nel drago che sputa fuoco sulla bimba bionda
avvolta dal buio della notte, nella porta nera che incombe sulla testa
di un’altra bimba, nel vento caliginoso che trasporta e amplifica il suo grido, nel teschio sanguinante che schiaccia i tetti, nelle orbite vuote dei suoi occhi che imprigionano il volto dell’altro, nelle braccia alzate che bucano la fronte, nelle mani che toccano un soffitto di pece densa che cancella il cielo, nelle case che bruciano, nelle bombe che cadono, nel sole nero che non illumina e non scalda, ma anche nei pupazzi dalle ali di farfalla e coi cappelli colorati e nel prato fiorito che sembra ignorare l’orrore.
Con infinita tenerezza Libera Mazzoleni raccoglie le pagine disperse
di questo libro illustrato dai bambini del mondo, su cui non è stata ancora tracciata la parola fine, e con cura, preoccupandosi di non alterarle, depone quelle immagini su tele ferite, tormentate da cuciture che amplificano le lacerazioni, imponendole allo sguardo che non può evitare
di scorrere desolato su quelle pieghe rabberciate, metafora di tante
vite andate in pezzi.
Il suo gesto artistico fa eco a quello estetico dei bambini, lo accoglie
e lo prolunga, componendo la trama di un tempo e tracciando le coordinate
di uno spazio entro cui si dispiega l’altra faccia della storia di questo nostro “secolo breve” intriso
di oscurantismo, di pregiudizi, di ferocia, di malsana attrazione per
la morte spesso vagheggiata come palingenesi della vita.
Il linguaggio di Libera Mazzoleni si fa allora sofferta parola poetica
e memoria eideticache tormenta e il suo gesto sembra dire ciò che, secondo Colli, accade all’artista. “Ecco ciò che accade all’artista: lui ha lacerato le ragnatele dell’astrazione, strappato l’ordito sottile dell’ottimismo, dove la violenza sembra dissimulata dal miraggio della finalità...”
Collocandosi, nell’ultima tela, tra il silenzio del sacro che non vede e il simbolo della giustizia che non riesce a comporsi come equilibrio e armonia tra le parti, richiamando i colori dell’alchimia quale processo di metamorfosi e cammino verso la rinascita di sé e tenendo in mano uno specchio che riflette l’intero, l’uovo di orfica memoria partorito dalle nere ali della Notte e dal quale nascerà “l’amato Eros”, l’artista sembra ribellarsi al gioco crudele della necessità che inebetisce con la sua mortifera razionalità e richiamare al dovere della speranza che è prima
di tutto rispetto e accoglimento della vita.
E così la memoria, “nutrice e madre del pensiero” (Zambrano), si congiunge all’utopia,
linfa di un pensiero nomade che vive nella tensione di un infinito
domandare.
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A nord della città di Praga
Libera Mazzoleni
A nord della città di Praga si trova Theresienstadt, piccola cittadina della Cecoslovacchia,
le sue strade, modelli di edilizia pianificata, cupa e severa, conservano una memoria che
preme dolorosamente lungo gli indifferenti confini con il cielo.
Da turista sono entrata nel vicino Campo di Concentramento di Teresin ho attraversato
tutti i cortili mentre i miei piedi segnavano, sulla ghiaia, il ritmo di un passo il cui suono
non si stemperava nell’aria ma diventava sempre più metallico, assordante, dislocando
inorriditi i miei pensieri nel tempo...
A sud ho visitato quella terra antica dove l’acqua del mare ha sostenuto l’uomo della
speranza, dove una luminosità senza pari si distende nel tempo, dove negli stessi templi,
popoli di religioni diverse incontrano le loro origini.
Qui ho attraversato divieti, posti di blocco, discriminazioni e ho visto passare la memoria del dolore negli occhi dei bimbi. Nel cuore dell’Europa, i bambini tracciano disegni con mani tremanti. Io vorrei fuggire, distogliere da me gli sguardi che ho incontrato, anche quelli di chi non ho conosciuto, ma nella mente, i luoghi, il tempo, gli accadimenti, si mescolano nell’empatia dell’affetto e la mia mano può solo ripercorrere con timore quegli stessi movimenti che hanno trasformato in forme, colore, immagini, la smisurata tracotanza degli uomini dell’odio.
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