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Libro opera: RHUMA Eritis
Sicut Dei
testi critici di L. Vergine,
E. Fiorani, L. Giudici, G. Longoni, R. Moratto e uno scritto dell’artista.
Testo italiano/inglese, pag. 96, Riproduzione di 212 riquadri,
con relative informazioni in appendice, cm 22 x 22
Silvana Editoriale
Milano 2007. (€ 20,00 + spedizione). |
OLTRE
IL LIMITE
Lea Vergine
“RHUMA” è forse
un incubo ma non si può svegliarsi. E non si deve.Delicata
e sommessa creatura, cui sembra interdetto un modo di esistenza
mondana concreta.
Libera Mazzoleni compie le sue esperienze con una determinazione
che fa pensare alla violenza del mite. Si rivolge a tutti, anche
a persone semplici di provato amore per il mondo delle immagini:
soprattutto in quell'ultimo lavoro, “Rhuma Eritis Sicut Dei
(2004/2005) realizzato con duecentottanta riquadri di tessuti differenti
sui quali scorre una scritta in acrilico.
Si tratta della geografia dell’orrore, dei misfatti delle guerre,
delle sopraffazioni e delle esclusioni. Un insieme di risposte a
temi e argomenti che pervengono alla nostra coscienza negli ambiti
della politica.
Mazzoleni accusa ed esibisce indizi e testimonianze della crudeltà del
reale. Dispiega un’accorta e (accorata) denuncia della demenza
umana, di quanto possa essere orrendo il fare di chi è “pericoloso
a sé e agli altri”. Lo fa come chi sa servirsi con efficacia
di figure retoriche.
Sui quadri ci sono le scritte: “Scorpion - Atlantico 21.5.68,
Cernobyl-26.4.86, Teatro Dubrovka- Mosca 23.10.02, Genpatsu-Gypsies-Mihama
Giappone 9.8.04”, intense di significato, atroci ed esemplari.
Mazzoleni colpisce con grande semplicità, le false ideologie
e. soprattutto, gli sdegni farisaici. Vede il segno, il disegno e
il colore al di fuori di ogni limitazione. Il che le permette di
riaffermare il legame naturale tra pittura e denuncia civile. Ma
le permette anche di giungere ad una integrazione del fare visivo
con la complessità di
testimonianze storiche. Così, essa restituisce al ruolo del
pittore una densità di allusioni che sottolineano come il
suo linguaggio abbia rilievo non solo per quello che afferma ma anche
per quello che nega.
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NEL
NOME DI RHUMA: i “sudari-vesilli” di
Libera Mazzoleni
Eleonora Fiorani
La piccola vita spezzata di Rhuma, una bimba afgana
di quattro anni, vittima del traffico di organi è l’insegna
che dà il nome all’ultima opera in progress di Libera
Mazzoleni, Ruhma. Eritis sicut Dei 2004-2005, costituita da 260 riquadri
di stoffe colorate su cui ha tracciato i nomi e le date degli eventi
tragici che hanno contrassegnato il Novecento.
Da “sempre” la scrittura abita l’opera di Libera
Mazzoleni, che la usa nella sua doppia valenza di disegno e di segno,
di forma e di comunicazione. Ha infatti a che fare con il corpo:
viene dall’incisione e dall’osservazione delle impronte,
dall’istanza di lasciare un segno di sé. Non si origina
dalla parola, ma dal visivo. Vive nell’estensibilità multidimensionale
dello spazio. E insieme rimanda alla motricità verbale ritmata,
mentre è essa stessa ritmo, puro pulsare che si sedimenta
e si incarna nei segni. E’ traccia, non diversa dalle orme
cave sul terreno, o da quelle che lasciano le cose o i corpi, o dalle
impronte delle mani, che troviamo nelle caverne-santuario della preistoria,
che ci ammaliano ancor oggi con la loro polisemia e astrazione e
sono puri sguardi che l’uomo volge a se stesso. In Ruhma la
scrittura contrassegna nell’apparenza asettica e gelida della
scelta dei caratteri tipografici e del maiuscolo l’irrevocabilità e
enormità degli eventi, alla cui narrazione possono dare avvio
solo il silenzio della traccia e il linguaggio del colore. Il dire
sommesso, rappreso, concentrato in un nome e in una data è ciò che
resta delle infinite vite spezzate, dei legami infranti, e insieme
degli eventi che hanno mutato e stanno mutando la nostra vita, quella
di interi continenti e del mondo. Così Hiroshima e Cernobil,
il genocidio del Ruanda e il crollo delle due torri stanno accanto
alle piccole vita come quelle di Ruhma e di quanti non hanno ancora
trovato un nome e una data se non nel cuore e nel ricordo di quelli
che li hanno amati.
Dunque, puri nomi e date, a cui il gesto dà forma: e proprio
perciò, essi dilagano sulle tele a ridare spessore alla parola,
ritrovando la sua valenza apotropaica, interrogando i nomi e la loro
capacità di evocare e narrare. Sono scritte in acrilico su
riquadri di stoffe raccolte nei viaggi, o anche ritrovate nella propria
casa, e accuratamente ritagliate per farne materiale e pelle di iscrizione.
Tela, cotone, seta, lino: tessuti poveri e tessuti preziosi stanno
l’uno accanto all’altro, con i loro diversi colori e
disegni, con le loro storie e culture rapprese nel proprio corpo.
Diventano con le scritte una sorta di loculi, a formare una parere
che rammemora il muro del pianto a Gerusalemme o il sacrario dell’Olocausto
nel Museo ebraico di Libeskind a Berlino. Ma sono anche vessilli
e insegne, che non hanno la prosopopea della pietra, ma la grazia
dell’effimero e del femminile.
I tessuti sono, infatti, i materiali “più umani”,
più simili all’uomo, al suo lato femminile, con cui
condividono la fragilità e il carattere di esseri del tempo,
che non sono fatti per durare. Sono i materiali più vicini
corporalmente all’uomo, che di essi si veste quasi fossero
una seconda pelle colorata, disegnata, ornata, dalle molteplici valenze
tattili. Sono la prima veste che iscrive il bambino nella comunità e
sono il sudario che ci accompagna nella morte. Segmentano la vita
quotidiana e il tempo della festa, la ritualità del sacro
e la rappresentazione della regalità. Appartengono al femminile,
mentre contemporaneamente sono l’aspetto visibile dei valori
e degli immaginari delle diverse culture.
Così Rhuma ci racconta il secolo passato: ne esibisce le ferite,
tutte aperte, le atrocità, di cui non è stato mai chiamato
a rendere conto, ne cataloga le storie non solo perché non
siano dimenticate, ma per aprire un altro sguardo su noi e sul mondo.
Opera di dis-velamento, ci chiama in causa, ciascuno di noi in prima
persona. Delinea una diversa geografia, quella che si nasconde nei
buchi della rete, al di là della cortina ammaliante della
comunicazione massmediale.
Rhuma è anche un ripensare il fare artistico, nell’intricato
panorama contemporaneo, in cui è cambiato il rapporto che
si instaura tra l’opera e la realtà, sia mettendo in
atto operazioni che interagiscono in un determinato contesto, magari
coinvolgendo il pubblico, costruendo narrazioni in dialogo, sia ponendosi
come istanza critica, o come etico bisogno interiore di dire, inaugurata
già dalla decostruzione di Duchamp, dato che con il ready
made l’arte più che costruire oggetti, “punta
il dito” a indicare, in un rapporto con la realtà e
la vita sempre più stretto e libero da mediazioni. In Libera
Mazzoleni questo ripensamento assume il valore di ritrovare l’arte
come passione civile, come “poiein”, un fare-dire che
ritrova l’essere e il senso delle cose. Un dire sommesso, fatto
di silenzi più che di grida, del testimoniare in prima persona,
un dire fatto di pietas per il dolore e di vicinanza e ascolto con
il mondo delle vittime. Così i rosa, i rossi, i verdi, i gialli,
gli azzurri che si susseguono nei riquadri a ovest lasciano progressivamente
il posto ai marroni e ai neri in quelli a est delle violenze verso
le donne, a contrassegnare il lato più oscuro e tortuoso della
storia e dell’animo umano. |
I
HAVE A DREAM…
Lorella Giudici
218 riquadri di stoffa, tutti diversi per colore
e contenuto, eppure così maledettamente simili nella forma
e nel senso, recitano il loro lungo e mesto rosario: Shuttle, Cape
Canaveral 28.2.1986; Sarno, Avellino 5.5.1998; Pluto, Cuba 17.4.1961;
Pepe, Argentina 29.1.1979; Sharm El Sheik, Egitto 22.7.2005…
In un’interminabile litania essi inanellano, uno dopo l’altro,
nomi di città, di paesi e di luoghi di tutto il mondo, a cui
seguono, perentorie e inappellabili, in una triste cabala divinatoria,
fredde teorie di numeri: i giorni di un tempo ormai trascorso e le
cui tracce, nonostante i terribili eventi accaduti, finiscono col
perdersi nei meandri della memoria.
Ognuno di quei quadrilateri di tessuto è l’epitaffio
collettivo di uomini e donne che non sono più. Migliaia di
vite spazzate via non tanto e non solo da improvvise catastrofi naturali,
da imprevedibili e sfortunati accidenti, ma soprattutto dalla stupidità e
dalla cattiveria umana: le prime responsabili di tutti gli scempi.
Ognuno di quei fazzoletti di tela, che immaginiamo avere metaforicamente
raccolto le calde lacrime del lutto, è divenuto il tassello
di un calendario greve, di un bollettino che per Libera Mazzoleni è la
rappresentazione di Rhuma, della vera faccia dell’occidente.
Tuttavia è come se la loro natura fosse duplice. Da un lato,
le rigide lettere, vergate con una grafia da dispaccio militare,
elencano uno dopo l’altro, con una freddezza e una sintesi
insopportabili, eventi che a volte non hanno più contorni
o nomi che restano inevitabilmente senza volto, ma che in quel loro
mesto e conciso annunciarsi divengono un pesante fardello, si fanno
foriere di lugubri presagi. Dall’altro, quel loro arlecchinesco
abito a scacchi parla di vita, non di morte, induce a sognare, a
cercare una via d’uscita, a sperare in un mondo migliore. Non
un muro del pianto, dunque, ma un collage di emozioni. Non una fine
ma un inizio. I have a dream, scrive Libera nella quarta di copertina.
Non è retorica e non è nichilismo, una lucida ricerca
ha sempre indotto Libera Mazzoleni ad avere una particolare attenzione
per una didattica dell’arte, a credere in un lavoro che sia
il portavoce di messaggi e di valori collettivi, un lavoro che si
faccia carico della complessità della realtà, della
ricchezza del pensiero nella certezza che la vita non è prevaricazione
ma dialogo, non è violenza ma libertà (un destino segnato
anche nel nome!).
Quei 2209 centimetri quadrati di panno (tanto misura ogni telo) nel
loro rendere più consapevoli del male del mondo vogliono,
dunque, tessere un colloquio con le coscienze; ma soprattutto, quel
variopinto puzzle di memorie aspira a rendere più rispettosi,
attraverso la morte, della vita. Poiché, è dalla cognizione
dell’importanza dell’esistenza che nasce il bene ed è dal
ricordo e dalla devozione dei morti, insegna Foscolo, che si capisce
la maturità, la grandezza e il futuro di una civiltà.
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INCONTRARE
RHUMA NEL SILENZIO EMPATICO DELL'ASCOLTO
Graziella Longoni
“The Hell is empty,
all the devils are up in the world.”
W. Shakespeare, The Tempest
“Di gran lunga più inquietante è che
non siamo ancora
capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante
un confronto adeguato con ciò che sta realmente
emergendo nella nostra epoca.”
M. Heidegger, L’abbandono
“Rhuma”: mosaico dolente, fragile nella leggerezza dei tessuti che lo compongono; mappa tragica di luoghi devastati, di tempi tremendi, di esistenze in macerie; topografia di un mondo dove la morte ripete all’infinito il suo freddo gesto annichilente...
Un linguaggio essenziale, quasi avaro, fatto solo di nomi e di date, contrassegna le singole tarsie, disponendole come titoli di un lungo e duro racconto che evoca la follia della “hybris” propria di chi, volendo “vivere oltre il limite giusto e la misura, perde la mente” (Sofocle) e precipita nella più rovinosa stoltezza.
“Rhuma” rompe il muro dell’indifferenza che rende insensibili di fronte all’infinito dolore portato nel mondo dalla tentazione luciferina dell’onnipotenza, denuncia l’apatia paralizzante e colpevole del pensiero conformista, incapace di empatia, che condanna intere popolazioni alla condizione di “esseri superflui”, privandoli di qualsiasi appartenenza al consorzio umano.
“Rhuma” racconta l’indicibile della passione nichilista, che stravolge la terra, rendendola un luogo minaccioso e inabitabile; racconta l’insensatezza delle guerre, i corpi dissolti dal fosforo delle bombe intelligenti, i corpi offesi e sfigurati dalle torture, devastati dagli stupri, contaminati dalle radiazioni e condannati a una lenta agonia, i corpi viventi ridotti ad assemblaggio di organi da espiantare e da vendere; racconta i crimini contro l’umanità compiuti in nome del diritto del più forte, i genocidi ripetuti e negati, le fosse comuni, le pulizie etniche, gli odi che dividono in nome del sangue, dell’identità, dei valori, delle religioni, delle culture.
Libera Mazzoleni ricorda e riscrive una storia che riporta al centro il soggetto umano offeso, una storia che accoglie la sofferenza muta presente nello sguardo dell’altro che si spegne, la vulnerabilità gridata dalle ferite incise nella carne del suo corpo vivente e nella mente che vacilla in preda alla disperazione..
Occhi di donna spalancati sul mondo, sguardo nomade che non si ferma sulla superficie scintillante delle cose destinate al consumo, ma si sposta continuamente, attraversando il buio che avvolge la ragione calcolante, creatrice di un “mondo-macchina” destinato all’infinita manipolazione.
Libera Mazzoleni, una donna, un’artista, compone il suo mosaico dentro i gesti dell’empatia, si permette cioè di vedere e di sentire l’altro, di accoglierlo dentro di sé, ridandogli voce e dignità, partecipando emotivamente alla sua storia, nella consapevolezza che vivere è “essere-in-relazione”.
Il suo lavoro, mentre dà visibilità al lato oscuro della ragione cartesiana che pensa i corpi come dis-animata “res extensa”, insieme anonimo di organi e di apparati, richiama la fragilità e la vulnerabilità del corpo che, come “corpo vivente”, è sempre con noi e ci presentifica al mondo come soggetti incarnati, attraversati da molte emozioni e da profonde passioni.
E’ questa riscoperta che suggerisce i gesti dell’empatia come sollecitudine, cura, rispetto per la fragilità che caratterizza l’essere umano e per quanto ci è stato affidato, vivendo..
Diceva Edith Stein: ”Il mondo in cui vivo non è soltanto un mondo di corpi fisici: in esso ci sono, esterni a me, soggetti che vivono e io so di questo vissuto (...Un) individuo psicofisico (...) è chiaramente diverso da una cosa fisica: non si presenta come un corpo fisico, ma come un corpo vivente sensibile che possiede un Io, un Io che recepisce, sente, vuole, il cui corpo vivente non è solo inserito nel mio mondo fenomenico, ma è il centro di orientamento stesso di un qualche mondo fenomenico, gli sta di fronte ed entra con me in un rapporto di scambio”.
Estetica ed empatia hanno la loro comune radice nel “sentire” che rinvia al “corpo percettivo”, al “corpo vivente”, sempre in contatto con gli altri che si annunciano nell’espressione del volto che sempre reca i segni del vissuto.
Libera Mazzoleni, ripercorrendo questo senso dell’estetica, conduce il suo fare artistico nel cuore del mondo abitato da uomini e donne “in carne ed ossa”; decostruisce le folli narrazioni di chi chiama la guerra “ esponsabilità umanitaria”, le morti dei civili “effetti collaterali”, i disastri ambientali “il prezzo del progresso”, ne mostra le crepe, gli scarti , le fratture e lo fa senza retorica.
Usa il linguaggio essenziale dei colori che si accendono e si incupiscono, espone la nudità dei nomi e delle date disegnati nei frammenti di semplici tessuti accostati per comporre una diversa sintassi capace di suggerire nuovi nessi di significato tra gli eventi.
Nel silenzio raccolto di chi è in ascolto, proprio del pensiero meditante, l’artista, “ram-memorando” la vulnerabilità e la precarietà dell’esistenza umana, sogna e chiede un nuovo inizio, dove gli uomini e le donne, che camminano insieme sulla stessa terra e condividono le stesso destino di fragilità, possano riconoscersi reciprocamente e imparare a prendersi cura di tutto ciò che è stato loro affidato, vivendo.
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TRA LE PIEGHE DEL RIMOSSO
Rossella Moratto
Duecentottanta drappi multicolori coprono una parete, come una tappezzeria
composita e variopinta: abbinamenti arlecchineschi di stoffe di vario
tipo, dai preziosi broccati ai sacchi di juta, esposte come panni
in un mercato orientale.
L’apparente senso di rassicurante spensieratezza del primo
sguardo è contraddetto dalla lettura di nomi, numeri e date
stampigliate su ogni lembo di stoffa: una lunghissima sequenza che
rimanda agli orrori del nostro passato recente. Così i drappi
diventano lapidi e la parete policroma un cimitero, spoglio precario
e corruttibile come il tessuto di cui sono fatti gli scampoli.
La miseria e la violenza umana scorrono sotto gli occhi, una lunga
lista che evoca necropoli e monumenti celebrativi ma senza l’imponente
sacralità che contraddistingue quei mesti luoghi: Rhuma è un memento
mori effimero e nomade, purtroppo in via di costante aggiornamento.
Un inventario storico, in cui i fatti sono rigorosamente contrassegnati
da nome, data e da un numero che permette di risalire a una didascalia
esplicativa che descrive concisamente l’accaduto.
Rhuma è un lavoro scomodo: l’insieme multicolore a prima
vista ci alletta per poi lasciarci basiti, a contemplare il disastro, collettivo
e individuale, poco importa. Ogni elemento formale è essenziale e funzionale
all’espressione del contenuto: le iscrizioni sono realizzate con l’ausilio
di mascherine, di cui si scorgono a volte le tracce sul tessuto.
La mancata ricerca della perfezione esecutiva non è casuale
ma traduce formalmente l’assenza di valore attribuita dalla
nostra società per tutto ciò che non si traduce in
un profitto immediato.
È un’iconografia semplice, un segnale lasciato su un luogo abbandonato
che testimonia un evento o commemora una persona: ricordi fragili e deperibili,
come le esistenze nominate nelle epigrafi, asciutte ed essenziali, e, per questo
più incisive.
In un mondo inflazionato da immagini, in cui la violenza esibita
quotidianamente è ormai resa quasi invisibile dal filtro
della nostra percezione assuefatta, Libera Mazzoleni sceglie di
non mostrare, ma semplicemente di scrivere i soprusi, la brutalità
e lo sfruttamento perpetrati nei confronti di uomini, donne, bambini,
collettività, ambiente. Una denuncia diretta, senza indugi,
utilizzando dei drappi di tessuto. La stoffa è un materiale
ordinario, domestico, femminile per eccellenza e legato alla vita
quotidiana: abito, lenzuolo, fazzoletto, bandiera, sudario, ma anche
tenda, rifugio, casa, e ancora involucro, sacco, valigia.
Non sono panni tessuti e decorati per l'occasione ma scampoli recuperati:
scarti di una società – di cui siamo parte e comunque
corresponsabili – che con la sua dissennata pratica di conquista
e sfruttamento lascia dietro di sé solo rifiuti.
Così, raccattando gli avanzi, Libera Mazzoleni lascia un segno, una
testimonianza discreta che rivendica la necessità di una presa
di posizione critica nei confronti dell’esistente e la volontà di
restituire all’arte una valenza sociale e politica. Una scelta
che l’artista porta avanti da anni, parallelamente all’attività di
impegno militante nelle Donne in Nero, rete internazionale contro
le guerre.
Rhuma è un work in progress iniziato nel 2004, una ricognizione
nel secolo scorso, fino ai nostri giorni e oltre: guerre, stragi, disastri
ecologici, violenze sulle persone, furti spoliazioni, repressioni di massa,
deportazioni, incidenti evitabili e progetti insensati forieri di imminenti
e future catastrofi. Il titolo del lavoro si riferisce a un episodio tra tanti,
particolarmente odioso e per questo scelto a emblema di questo catalogo tragico: è il
nome una bimba afghana di soli quattro anni, vittima di un espianto di organi
da vendere sul mercato nero, uccisa per fornire pezzi di ricambio umani.
Ogni commento è superfluo, rimane solo spazio per la riflessione
che fa di Rhuma un esempio di un’arte sociale
senza retorica né compiacimenti, più che mai urgente
e attuale. |
L'inquietudine che nasce dall' incalzare di domande prive di risposte.
Libera Mazzoleni
Un tempo mi affascinavano
gli elementi puramente formali del linguaggio artistico, l’andamento di una linea, la tensione di un percorso, il suo rapporto con il colore. In qualche modo mi pareva che esprimessero qualcosa dell’inspiegato accadere dell’esistente. Mi emozionavano quelle opere che dicono con semplicità poetica e immediatezza istintiva il rapporto con l’interiorità del
loro autore.
Della mia interiorità io ho sempre avuto timore e non ho osato guardare dentro l’abisso dove affondano i sogni. Ho preferito guardare fuori di me, nello spazio esterno, ritmato dall’accadere
degli eventi e illuminato dalla luce abbagliante del giorno.
Poi quel “fuori”, così invadente e rumoroso, si è fatto ricordo, memoria, spazio intimo, finendo con l’accompagnarsi al sogno nella terra sconfinata dell’interiorità. Così le immagini, le forme, i colori, i sogni sono diventati una pausa all’inquietudine che nasce dall’incalzare di domande prive di risposte, forse perché l’uomo della modernità non vuole più saperne della meraviglia, della profondità dei segreti che si addossano lungo la linea sottile che separa la luce dall’ombra, il bene dal male…per costruire la sua identità non gli importa più di guardare le stelle, preferisce trastullarsi con giocattoli infernali dominati dal numero e sembra appagarsi nell’esercizio
del potere di distruggere.
“…dormiamo, infatti, dormiamo per paura di dover percepire il mondo intorno a noi… da una parte l’interiorità senza coscienza, sogno…dall’altra funzionalità, utilitarismo, frasi fatte, tanta violenza.” (1)
La guerra non è solo la naturale conseguenza del mercato, è anche lo strumento più adeguato per realizzare l’annientamento
della vita.
Ma allora, che c’entra l’arte? A quale scopo?.
“Allo stato attuale delle cose, noi, a furia di consensi, siamo ormai arrivati al punto che Hermann Broch ha stigmatizzato con una frase irosa. Ma tant’è, vuol dire che ci siamo arrivati. “ La morale è morale, gli affari sono affari, la guerra è guerra e l’arte è arte”.
Se noi la tolleriamo, se accettiamo – pars pro toto – la formula : “L’arte è arte” e il suo tono derisorio… allora vuol dire che stiamo dichiarando fallimento…”(1)
(Ingeborg Bachmann: Domande e pseudodomande
in “Letteratura come utopia” Lezioni di Francoforte,
Adelphi 1993)
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In risposta a Gaia Cianfanelli e Silvia Litardi
Libera Mazzoleni
Scrivono Gaia Cianfanelli e Silvia Litardi
(Associazione Start), curatrici della mostra colletiva: Dissertare/ Disertare
Allora … “Mettere
ogni significato sottosopra, dietro-davanti, alto-basso. Scuoterlo
radicalmente, riportarvi, reintroducendovi quelle convulsioni che
il suo “corpo” patisce impotente com’è a
dire ciò che lo agita. Insistere inoltre e deliberatamente
su quei vuoti del discorso che ricordano i luoghi della sua esclusione,
spazi bianchi che con la loro silenziosa plasticità assicurano
la coesione, l’articolazione e la coerente espansione delle
forme stabilite. […] Sconvolgere la sintassi”
Questo è un passo tratto dal libro Speculum L’altra
Donna di Luce Irigaray. Questo testo, che presto divenne un classico
del pensiero femminista, le valse la scomunica, nel ’74, dall’Università di
Vincennes, dove insegnava.
Molti anni sono passati da allora, generazioni di artiste si sono
formate, forgiate e ritrovate nelle teorizzazioni dei suoi scritti
come in quelli di altre studiose. Quale effetto provocano ancora
queste parole? I vuoti del discorso, gli spazi bianchi sono stati
riempiti? E se si, come? (Gaia Cianfanelli, Silvia
Litardi)
In risposta a Gaia Cianfanelli e Silvia Ritardi (Associazione
Start) che hanno proposto la mostra Dissertare/Disertare.
Dissertare/Disertare
si legge nel vocablario: dis (ordinatamente) sertare (disporre)
'trattare di argomenti ragionandovi a lungo con impegno e serietà',
generalmente su problemi filosofici essendo la filosofia il luogo
per eccellenza dove il ragionamento trova il suo ambito privilegiato.
Non sarà un caso che il termine si connetta a: disertare(abbandonare)
désertare distruggere,
devastare).
Bella aporia.
Essenziale o inessenziale il tema proposto?
Speculum e altri
testi hanno destrutturato dal di
dentro l'impianto sul quale si è retta la psicoanalisi,
la filosofia, la scienza, portando alla luce la misoginia della cultura
patriarcale costituitasi sulla totale rimozione dell’alterità femminile.
Gli anni 60/70 hanno offerto alla mia generazione una sollecitazione
critica e democratica senza precedenti, una sollecitazione amplificata
anche dalle istanze presenti nel femminismo.
Personalmente io non ho partecipato
a movimenti femministi, ma è anche
grazie a questo apporto che in quegli anni ho potuto interrogarmi sul
mio essere nel Mondo, sul mio rapporto con gli altri e con le cose,
sul mio disagio nell'essere donna e nell'essere artista.
Grazie alla possibilità di confronto con testi significativi,
ho potuto trovare le parole e i modi per
ricomporre in unità i
due aspetti della mia persona, l'essere donna e l'essere artista,
che altrimenti avrebbero potuto rimanere separati, o omologati all’interno
dell'Unico Universo maschile.
Così, nella linea dinamica delle mie sculture, esprimevo il
rifiuto per l’astratta visione geometrica allora imperante,
una visione che ai miei occhi appariva come la metafora di una concezione
metafisica del Mondo; con le parole e i gesti delle mie performance
potevo tradurre la mia opposizione alla visione androcentrica che
permeava la cultura.
Una tradizione antica
Il mondo greco, di cui noi siamo eredi, ha riconosciuto la differenza
di genere ma solo per affermare la superiorità del maschile
sul femminile e per condannare la donna al silenzio.
Ha confinato il femminile nello spazio chiuso, privato della casa,l'Oikos,
dove la donna vive a contatto con i corpi e svolge i gesti della
cura nei confronti dell’altro; mentre per il maschile ha pensato
lo spazio aperto della Polis, dove vive il discorso e la
ragione che declina il potere dell’uomo.
(E’ emblematico il discorso
che Medea, la sapiente, pronuncia sulla condizione della donna
nel mondo greco in una pagina di superba e drammatica bellezza,
della tragedia di Euripide.
E’ inquietante che le sue parole riguardino ancora oggi più dei
2/3 delle donne nel mondo.
In Afghanistan, negli ultimi mesi, si sono bruciate vive 90
giovani donne per sfuggire al destino di schiavitù al quale
la legge patriarcale le condanna.)(1)
Cultura
Occidentale
La Legge patriarcale, sacralizzata dalla religione, è la
tradizione dentro alla quale nasce il pensiero della metafisica
che nella separazione tra cielo e terra, anima e corpo, razionale
e irrazionale, è la più compiuta metafora di quella
antica separazione.
La cultura Occidentale, dal 'Mondo delle Idee' di Platone al ‘cogito’ cartesiano,
ha giocato una razionalità solare, apollinea, che ha fondato
il regno astratto dell’Universale separato dal particolare
concreto, vivo e vivente e ha svilito la corporeità, pensandola
come il luogo oscuro del femminile, della maternità, della passione,
dell'isteria.
E’ proprio questa originaria separazione, che ha al
proprio interno la cancellazione del femminile, del corpo, del particolare,
del senso del limite, della vita nel suo concreto manifestarsi, la
matrice che ha generato una società violenta; una società malata
perché incapace di sentire le ragioni dell'altro, di
coesistere con la diversità e di vedere in essa la normale
espressione dell’esistenza.
Dice Carol Patmann: 'La prima aggressione è quella tra
i sessi, poi viene quella tra i ruoli'.
In “dissertare/disertare si chiede: ‘I vuoti
del discorso, gli spazi bianchi sono stati riempitiI? E se sì,
come?’in un intervista si legge: ‘La differenza di genere non è più un
tema di riflessione e non si può più parlare di emarginazione
sessista poiché assistiamo, per la prima volta nella storia
dell’arte ad una parità di presenze, sulla scena artistica
Occidentale, di uomini e donne…” (L.Barreca)
Se non sbaglio, ‘l’investitura ufficiale’ per
un’artista, avviene poco prima che l’artista esali il
suo ultimo respiro (l’eccezione non fa la regola).
Bisognerebbe anche interrogarsi sul come mai, in Italia, sia
necessaria una legge che impone il 20% di presenze femminili tra
i candidati politici. Forse qualcosa non funziona ancora
perfettamente nella testa dei ‘democratici’ maschi italiani?
Comunque, oggi, è innegabile che la donna abbia acquisito
i diritti di cittadinanza insieme alla discutibile uguaglianza insita
nell’ambiguo concetto di ‘pari opportunità’.
Ma sono le pari opportunità quelle che riempirebbero ‘gli
spazi vuoti del discorso, gli spazi bianchi’?
La pari opportunità, in sè, coinciderebbe
con l’emancipazione del femminile?
Se vi fosse un’automatica corrispondenza tra godimento dei
diritti ed emancipazione, tutto sarebbe risolto, non ci sarebbe più alcun
problema.
Le donne oggi sono uscite dallo spazio privato della casa, sono entrate
nello spazio pubblico, possono fare carriera, arruolarsi nell’esercito,
torturare i prigionieri, fare le artiste, guidare un bombardiere,
insomma, possono fare tutto quello che fa un uomo, in Occidente.
Ma
le pari opportunità, in sè, coincidono
automaticamente con la liberazione femminile o non
sono piuttosto la forma moderna dell’omologazione se
le donne non portano al loro interno la consapevolezza di una differenza
vissuta come soggettività incarnata che non si riconosce
nel nichilismo pervasivo dell’onnipotenza maschile e delle
sue barbarie?
Non può darsi emancipazione senza liberazione dalla
violenza dello stereotipo maschile che pretende di porsi come unico
modo di declinare l’umano.
Schiave, serve e infine complici partecipi di pari opportunità ma
in un mondo che va a rotoli e che si ostina ad imporre il suo
Ordine a senso unico.
l’Altro
sguardo
Nella sua particolare condizione storica, la donna si è trovata
in stretto rapporto con la cura della vita, del corpo, della salute
e ciò le ha permesso di sviluppare la capacità di accogliere
l’altro, di incontrare empaticamente il diverso da sé,
di tenere aperto lo spazio della relazione.
Il suo continuo contatto coi corpi, dentro i quali la vita si esprime
come presenza individuata e singolare al mondo, ha reso il suo sguardo
capace di non separare la mente dal corpo, il cielo dalla terra,
il Particolare dall’Universale.
Ha imparato il ‘pensiero dell’Ambivalenza’ che
tiene l’uno e l’altro insieme, ha imparato a pensare
con il cuore, ma questa esperienza di interezza non è diventata
sapere condiviso, cultura capace di cambiare lo sguardo maschile
sul mondo.
Questo ‘pensiero incarnato’,che
contraddistinguerebbe il femminile, sa riconoscere la Terra come
orizzonte intrascendibile del nostro soggiornare nel tempo e nostra
unica dimora nel mondo. Questa ‘sapienza femminile’è consapevolezza
del limite e tensione verso l’altro che si annuncia sempre
nell’unicità del suo volto e non nell’astrattezza
dell’essenza. Questa ‘originale modalità di
essere’, che si esprime nel bisogno di unire ciò che
viene separato e allontanato da sé per pura volontà di
domino, questa cultura protesa a costruire la trama della pluralità è l’antitesi
del Pensiero Unico che raggela il mondo nell’omologazione,
dove l’altro può esistere solo come replicante e copia
sbiadita.
Ma
l’Occidente è rimasto
cieco allo sguardo femminile.
Gli spazi bianchi non sono stati riempiti e il Mondo non
parla ancora a due voci.
Non è stata ascoltata la voce di Hanna Arendt, quando ricordava
che non l’uomo, ma gli uomini e le donne abitano
la terra e che la pluralità, dunque, è il nostro destino.
Tempi
difficili
viviamo tempi difficili; il Totalitarismo si presenta oggi con volti
diversi, nella forma della omologazione che uccide la coscienza,
nel culto di una soggettività alienata, tutta chiusa nell’egoismo
individualistico, sostanziata di solitudine e di paura, ricoperta
di una miriade di oggetti inutili, impoverita dalla perdita dei
legami di solidarietà e per questo barbara e razzista; una
soggettività reificata che, dietro lo scintillio del logo
della globalizzazione, nasconde: ‘la speculazione finanziaria,
il traffico di armi, il commercio della droga, il commercio degli
organi vivi e morti, il commercio dei rifiuti’.(2)
“...dormiamo, infatti, dormiamo per paura di dover percepire
il mondo intorno a noi... da una parte l’interiorità senza
coscienza, sogno... dall’altra funzionalità, utilitarismo,
frasi fatte, tanta violenza’. (3)
L’arte
come rimedio al vivere
Ciò che ha in sé una propria ragione non è oggetto
di moda per periodi di avanguardia.
Questa è la ragione per cui non ho abbandonato quello sguardo
che mi accompagnò nel rifiuto di una concezione astratta e
idealistica dell’arte a favore di un’espressività artistica
radicata nel mio essere donna, dolorosamente consapevole di abitare
un tempo chiuso all’immaginazione del possibile.
Sono fuggita di fronte a quella modalità di esistere al femminile
che crede di potersi individuare limitandosi a rovistare nel proprio
privato senza accorgersi di continuare così a muoversi all’interno
di una soggettività alienata e sradicata dal mondo.
Nel Mito, nel tragico, nel rimosso della cultura Occidentale, ho
continuamente cercato le parole e i gesti per dire al femminile la
mia passione per il mondo, vivendo l’arte come svelamento di
ciò che è nascosto e come rimedio al ‘dolore’ di
vivere.
8 aprile 2005
(1) Euripide, ‘Medea’,
i Classici Feltrinelli (v. 231/259 pag. 61)
(2) B.Amoroso, ‘Globalizzazione e criminalità’,
Asterios
(3) I.Bachmann, ‘Letteratura come utopia.Lezioni di Francoforte’,
Adelphi.
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