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Libro opera: I MURI DELLA MENTE
fotografie e poesie di Libera Mazzoleni, testo critico Graziella Longoni, Gigliola Foschi. Testo italiano/inglese, pag 72, 46 immagini a colori, cm 22 x 22 Silvana Editoriale Milano 2007. (€ 20,00 + spedizione).

DENTRO L’INFERNO DELL’ESCLUSIONE
di Graziella Longoni

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno,
è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni,
che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti:
accettare l’inferno e diventarne parte, fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui:
cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno,
e farlo durare, e dargli spazio.”

I. Calvino, Le città invisibili

Muri che si vedono, muri che ci abitano
Superare l’amnesia e dispiegare la consapevolezza, tracciando un percorso, estetico-poetico, dentro gli abissi dell’esclusione, della separazione, della negazione, del nichilismo attivo e violento, per dare un volto all’inferno che ogni giorno abitiamo senza più riconoscerlo, perché lo abbiamo chiamato con nomi soavi: sicurezza, pace, democrazia, libertà, difesa dell’identità.
Collocandosi nell’orizzonte della veglia, l’artista si impone di guardare dentro l’inaudito del dolore e lo spreco della forza cieca, avviando un’inquietante meditazione su quello che Hannah Arendt chiama il “crimine ontologico primario”: la distruzione dell’essere umano, la cancellazione della sua unicità, l’annichilimento della sua identità relazionale, la riduzione del mondo della pluralità umana a dimora inospitale, dove domina un sentimento malato, che si compie nella rovina delle paure, degli odi e dei rancori.
Ecco i muri, pensati come dispositivi di difesa contro l’ “Altro” che minaccia la nostra esistenza e ci ruba il nostro mondo di cose; i muri che aprono ferite tremende nel territorio, trasformando i luoghi di vita in immense prigioni; i muri delle mine antiuomo, dei fili spinati elettrificati; le pesanti muraglie di cemento e di lamiera, erette per impedire di vedere l’ “Altro”, costruite per allontanarlo dal nostro spazio vitale e per ucciderlo, quando osa attraversare quel confine che gli impone di esistere solo come straniero.
Ecco i muri di fuoco che allontanano e inceneriscono; i muri puzzolenti che contengono i sopravvissuti alle traversate, privandoli di ogni dignità; i muri sinistri delle prigioni dove si tortura, sorridendo, imprecando, fotografando l’ “animale” che geme a terra, coperto e imbrattato dai liquidi del suo corpo sfinito, un corpo trafitto dalla vergogna, nel quale non potrà più riconoscersi.
Ecco il muro del patriarcato con i suoi veli che separano il femminile dal maschile, che nascondono un corpo di donna foriero di perdizione spirituale e nello stesso tempo ne decidono la proprietà e decretano la sua insignificanza nello spazio pubblico, che le donne possono abitare solo nel nascondimento o nella passione rivoluzionaria che le condanna al martirio.
Ecco i recinti mentali del patriarcato che soffoca la dignità del corpo femminile, spogliandolo, reificandolo, riducendolo a merce da vendere nell’invitante mercato della liberazione sessuale.
Ecco l’imbroglio occultante dell’ideologia patriarcale che cancella la differenza sessuale, celebrando un’emancipazione omologante e mutilante, dove la donna, coperta con gli abiti del militare, è finalmente uguale all’uomo nell’esercizio della forza che dà la morte.
Muri, dovunque, muri che si vedono, muri che si ergono come icone emblematiche di un tempo che sembra conoscere e trasmettere solo messaggi doppi e sinistramente complementari, messaggi di rassicurazione rivolti al simile e messaggi di minaccia rivolti all’ “Altro”.
E anche muri che non si vedono, ma che ci abitano come rigide barriere che imprigionano la mente, rendendola incapace di interrogarsi sul senso di ciò che accade in questo mondo della durezza e dell’esclusione, dominato dalle “passioni tristi”, passioni che cancellano il futuro come speranza, evocandolo solo come minaccia. E’ un vuoto di futuro che rende il cuore freddo, insensibile, pieno di rancore, ossessivamente rivolto alla ricerca di un capro espiatorio nell’inutile tentativo di allontanare la paura, l’impotenza, la disgregazione che impoverisce l’esistenza, condannandola alla ripetizione di gesti privi di slancio, compiuti in un presente che cancella tutto, la memoria e il desiderio.
Libera Mazzoleni non accetta di diventare parte cinica e indifferente dell’inferno in cui siamo. Proprio per questo, decide allora di guardarlo dal di dentro, assumendosi la responsabilità di rappresentarlo con immagini radicate negli eventi quotidiani e caratterizzate da un nudo realismo che impedisce scappatoie rassicuranti. Accanto alle immagini, parole poetiche cercheranno di raccontare lo smarrimento provato davanti all’inferno, parole che nascono dall’ascolto del dolore, dell’umiliazione inflitta, del silenzio che impietrisce, della vergogna che sopprime la volontà di vivere, della forza che annichilisce.

Una meta-morfosi per incontrare l’ “Altro”
L’artista non solo riproduce immagini di eventi, non solo richiama ideologie escludenti, ponendosi come sguardo che vede e mente che pensa, mette in atto anche una meta-morfosi straniante che la coinvolge in prima persona e interamente. Dà infatti il suo volto e il suo corpo alle donne negate dal burqa, alle donne coperte dal chador, alle donne velate con il fucile in mano e destinate al martirio, alle donne soldato equipaggiate per uccidere il nemico, alle donne umiliate, denudate e accecate nelle stanze buie della tortura.
Rompendo con un’identità rigidamente chiusa e autoriflettente che celebra il “medesimo” mentre esclude l’ “Altro” dall’orizzonte della presenza, Libera Mazzoleni mette in scena un’ “identità liquida”, che si scioglie cioè in altre forme di esistenza, e fa ciò per poter comprendere e poter raccontare, dall’interno, quelle modalità di essere-nel-mondo, che si annunciano nella forma della reclusione, della negazione, della vergogna, della volontà di morte, del sadismo di chi tortura con il sorriso sul volto.
Un’ artista donna prova ad abitare sia l’esistenza trafitta della vittima, sia l’esistenza brutalizzata della torturatrice e cerca di parlare all’una e altra, dicendo, alla prima, la sua sofferta solidarietà e, alla seconda, la sua infinta lontananza.
Simile a un viaggio di scoperta, di trasformazione, di continui dislocamenti del proprio “Sé”, di inabissamenti nella memoria e nell’immaginazione, questa meta-morfosi, compiuta sul proprio corpo, è, insieme, abbandono della strada maestra tracciata dal sordo conformismo identitario e destrutturazione della retorica del potere per esibire la miseria della loro visione del mondo.
Allora i muri appaiono davvero per quello che sono: dispositivi pensati e costruiti per impedire che il mondo si configuri come “dimora predisposta per chi viene” (Arendt), dispositivi brutali che trasformano il mondo nell’inferno dei vivi, un luogo inospitale di asservimento e di omologazione, una fortezza sbarrata all’ingresso dell’ “Altro”, da respingere in quanto straniero, da cacciare in quanto clandestino, da uccidere in quanto nemico.

L’arte come “procedura di verità”
A questo punto viene spontanea una domanda: da quale luogo dell’arte prende le mosse il lavoro di Libera Mazzoleni?
Alain Badiou ci parla di un’ arte che “è in sé procedura di verità” e “un pensare singolare” che ha origine nella storicità dell’evento e si mantiene, anche durante il suo dispiegamento produttivo dell’ opera artistica, dentro la particolarità che caratterizza l’evento stesso, per poterlo raccontare nella molteplicità dei significati che porta dentro di sé, impedendogli così di svanire nell’abisso dell’universale, dove l’unicità sparisce, risucchiata dalla forma esangue e disincarnata del concetto.
Nella definizione di Badiou risuona il senso originario della verità come “alétheia”, svelamento di ciò che si mostra sempre nella singolarità del proprio essere.
E’ questo il luogo da cui ci parla Libera Mazzoleni, il luogo storico degli eventi che accadono e che l’artista nomina ad uno ad uno, interrogandone il senso, ponendo cioè costantemente in relazione le cose – nel nostro caso, i muri - con gli uomini e le donne che li costruiscono, portando alla luce, nel contempo, un orizzonte di significati a cui far riferimento per tentare una comprensione di sé e del mondo nel quale viviamo.
Pensando al singolare, può attivare quella meta-morfosi che, nella diversità delle forme assunte da un soggetto divenuto nomade, parla non di un generico essere umano, ma di un “soggetto in carne ed ossa”, con un volto e con un nome precisi, di un soggetto che dà la morte e di un soggetto che muore, di un soggetto che respinge l’ “Altro” e di un soggetto respinto che sparisce dallo sguardo, di un soggetto che ferisce e di un soggetto che è ferito, di un soggetto maschile che risucchia un soggetto femminile nel mondo violento del patriarcato.
Richiamando alla nostra memoria ciò che è inferno, Libera Mazzoleni ci costringe a guardare dentro l’abisso della negazione dell’ “Altro” con occhi interroganti.
Hannah Arendt, che non ha esitato a guardare dentro l’inferno del totalitarismo che rende l’essere umano superfluo e si è costantemente interrogata sul senso della cancellazione dell’umano, ha scritto: “ Pensare e ricordare (...) è il modo umano di mettere radici, di occupare il proprio posto nel mondo, dove giungiamo tutti come stranieri”.
aprile 2008


Restare umani

di Gigliola Foschi

“Sapere e far sapere è un modo di restare umani”, scrive Tzvetan Todorov a proposito delle immagini strappate all’inferno di Auschwitz da alcuni membri del Sonderkommando, poco prima della loro stessa liquidazione. Le loro quattro fotografie sono mosse, sfocate,”, ma proprio per questo – come sottolinea il filosofo Georges Didi-Huberman, nel suo libro Immagini malgrado tutto – “ci troviamo dinanzi a queste immagini come dinanzi alla necessità sconvolgente di un gesto di empatia”. Forse può risultare eccessivo paragonare l’urgenza disperata del Sonderkommando nel testimoniare l’orrore di Auschwitz, con le immagini proposte da Libera Mazzoleni. Eppure, al di là delle mille differenze, anche il suo lavoro nasce dal bisogno di “restare umana” e dunque dalla necessità di far sapere e ricordare i drammi del mondo. Per lei l’arte non è qualcosa che si situa al di là della morale: è, tutto all’opposto, un impegno etico, politico. Del resto, pure Alfredo Jaar ha scelto un auto-imperativo molto simile – “Non pensare come un artista, pensa come un essere umano” – quale idea guida per i propri lavori, anch’essi attraversati da una tensione etica vissuta come un modo di esistere. Ma in che cosa consiste questo rimanere “umani”?
Riflettendo sul recente film Il giardino dei limoni (di E. Riklis) ci si accorge che le uniche persone disposte a lottare contro la distruzione della limonaia – considerata pericolosa per la sicurezza della famiglia di un ministro israeliano – sono le persone capaci di empatia. Per la palestinese Salma, la protagonista del film, così come per il suo anziano aiutante, i limoni sono parte della sua vita, dei suoi ricordi d’infanzia, del suo stesso esistere. Vedendoli avvizzire, perché le viene proibito di innaffiarli, lei patisce emotivamente, con tutta se stessa, la loro stessa sofferenza. Cadono i limoni a terra, e ogni tonfo le trafigge il cuore. Eppure lei sa che deve resistere ad ogni costo per difendere le sue amate piante. Attorno a lei, come attorno alla moglie, sempre più in crisi, del ministro, molti, troppi, reagiscono con indifferenza. Il rappresentante dei palestinesi dice a Salma che ci sono casi ben più gravi di cui doversi occupare: per lui non contano i vissuti umani concreti, ma solo i dati e le vicende politiche. Il figlio della protagonista, così come la figlia del ministro, si limitano a minimizzare perché non vogliono farsi coinvolgere dalle emozioni e dai turbamenti delle proprie madri: loro rimangono chiusi, sbarrati dentro l’autodifesa della propria identità. Così, quando alla fine del film, il muro che divide Israele dai Territori passerà proprio tra la casa del ministro e la limonaia, ci si accorge che il ministro, il rappresentante palestinese, i figli, e tanti altri come loro, l’hanno reso possibile perché erano già loro stessi rinserrati dietro un muro mentale che li separava dagli altri.
Il “male” nasce dunque dall’indifferenza, dalla barriera insuperabile tra l’io e il tu, tra noi e loro. Gli altri non ci appaiono più come persone, ma vengono ridotti a dati statistici o a casi politici, rispetto ai quali risulta impossibile identificarsi. E questa auto-clausura dentro un deserto autoreferenziale privo di aperture e capacità relazionali, è un rischio che riguarda tutti. Di conseguenza, un’arte davvero critica e quindi capace di riflettere sulla condizione del mondo, di penetrarne la fitta opacità, deve partire da un “farsi umano” dell’artista che si relaziona ad altri umani, concreti, vivi, sofferenti o crudeli, ma sempre con un volto rivolto verso di noi, con uno sguardo che ci interpella. Una persona è “umana” quando è dotata di empatia, di un sentire che si fa carico del male, del dolore e della sofferenza, per travalicare la vergognosa indifferenza che dilaga nel nostro mondo.
Non è quindi un caso se il lavoro di Libera Mazzoleni si apra mostrandoci una serie di muri, architettati come dispositivi per negare la stessa esistenza degli altri: dal muro di Berlino a quelli che dividono Israele dai Territori Occupati o gli Stati Uniti dal Messico. Per superare l’indifferenza – sembrano volerci dire le sue immagini – bisogna innanzitutto prendere coscienza di questi muri, avere la forza di guardarli, sentirli, viverli come presenze che ci riguardano. Per questo l’autrice ce li mostra da vicino, nella loro concreta presenza materica e terribile, ma al contempo li trasforma in una visione inquieta e inquietante. I suoi muri, infatti, come d’altra parte tutte le sue immagini, non sono stati semplicemente fotografati per testimoniare una realtà esteriore. Poiché il male dal quale questi muri sono sorti, è un male che ha attraversato, colpito, segnato l’artista stessa, ecco che tali muri si fanno simili a incubi assillanti. Come racconta l’autrice, un giorno “ho cominciato a vedere un’infinità di muri, muri per separare, per allontanare, per predare, per dominare, per uccidere… Ho trattenuto alcune di queste immagini che, provenendo dai luoghi agitati del cuore, si disponevano apparentemente senza un ordine, ma erano tenute insieme dal mio spaesato vissuto di orrore e di dolore”.
Saper vedere, dunque, non significa solo porsi di fronte alla realtà, ma avere la capacità di sentirla empaticamente, di soffrirla, patirla. Vedere è anche immaginare, affinché ciò che accade nel mondo – dal genocidio del Ruanda agli assassini di donne di Ciudad Juárez, in Messico – non rimanga relegato in un altrove che non ci riguarda. L’autrice è consapevole che spesso le immagini della sofferenza e del dolore, malgrado ogni buona intenzione, operano all’interno dei media per testimoniare gli orrori da cui siamo dispensati: forniscono il giusto contrasto rispetto a quelle immagini rassicuranti che vogliono farci sentire dentro un mondo felice, in un grande circo di merci luccicanti. Per evitare il rischio di questa presa di distanza, l’autrice sceglie di non assumere la posizione dello spettatore distaccato: con l’immaginazione, con le emozioni, con il suo stesso corpo, “scavalca il muro” che la separa dal mondo e dagli altri.
Libera Mazzoleni entra letteralmente dentro le immagini: è pronta a intervenire manipolandole digitalmente, per creare lei stessa le tracce delle uccisioni delle donne trucidate a Ciudad Juárez. In altri casi, il suo stesso corpo si rifiuta di starsene disciplinato entro i confini che gli sarebbero propri e migra in quello delle donne afgane negate dal burka, presta il proprio volto alle donne velate e destinate al martirio, si sostituisce a quello delle donne umiliate e denudate nelle stanze della tortura. In prima persona spezza la logica delle identità chiuse e autoriferite, e si fa “altra”. Lei, donna che s’immedesima nella sorte di molte altre donne, s’impegna ad abitare non solo l’esistenza sofferente di quei corpi femminili che il fondamentalismo islamico trasforma in sessi da nascondere, ma anche quella della torturatrice di Abu Ghraib che cela il suo sadismo dietro un sorriso idiota. Grazie a questo suo dislocarsi al “posto di”, prova a trasformare la storia di queste donne nel proprio vissuto, per viverlo dall’interno. Le sue realistiche metamorfosi, se da una parte rivelano l’importanza e l’urgenza di un’etica altruistica, dall’altra creano un effetto di raddoppiamento e rispecchiamento che disturba e inquieta. Ora che le prigioniere di Abu Ghraib hanno infatti il suo stesso corpo, non sono più solo donne a noi estranee che, travolte dalla crudele legge tribale irachena, chiedono di morire perché macchiate dallo stupro dei loro carnefici. “Loro” sono diventate “lei”, e di fronte a “lei” non possiamo più sottrarci all’identificazione, all’interrogazione.
Ma dove ha scattato le sue immagini Libera Mazzoleni? E’ evidente che non ha visto di persona tutti i drammi di cui ci fa partecipi, ma ciò non di meno ha sentito l’imperativo etico di doverli mostrare. D'altronde, buona parte della storia delle immagini può essere intesa come uno sforzo per raggiungere la verità anche quando questa non è manifestamente visibile. Si sa, ad esempio, che molte fotografie scattate durante la Guerra civile americana da Alexander Gardner e Timothy O’ Sullivan furono il frutto di una messinscena: spinti dal desiderio di creare immagini efficaci che agissero come un monito contro l’ orrore della guerra, essi finirono con il ridisporre i cadaveri dei soldati in funzione dei loro scatti. Lo stesso Eugene Smith era consapevole che le immagini puramente documentarie rischiano sì di far vedere, ma anche di far “sentire” poco allo spettatore. La realtà visibile gli appariva dunque poca cosa rispetto alla verità morale, alla profondità delle sue emozioni e alle ingiustizie che voleva denunciare. Così Smith accentuava i contrasti di chiaroscuro fino a ottenere effetti drammatici, eliminava particolari di disturbo, combinava insieme più di un negativo fino a comporre dei veri e propri fotomontaggi. Se la realtà si dimostrava “inerte”, lui non esitava a ricrearla come un sapiente regista drammaturgo: “Aggiusto la realtà per farla meglio aderire alla verità”, - amava dire.
Per saper vedere, per andare oltre il puramente visibile, bisogna dunque sapere anche immaginare. Il che non significa mettersi banalmente a fantasticare, ma nemmeno travisare la realtà. Nell’opera di Libera Mazzoleni l’ immaginazione è anche, e soprattutto, una facoltà politica che investe il suo corpo, la sua mente, i suoi ricordi, e la trasporta “dentro” il dolore degli altri e non più solo “davanti”. Per lei e per noi poco importa dunque se le sue immagini sono state scattate davvero là dove il titolo ci dice, oppure se siano state fatte da altri e poi rielaborate: basta che siano efficaci, più vere del visibile. E per renderle ancora più intense, l’autrice le monta una accanto all’altra – passando dal Ruanda alla Bosnia, dal muro di Melilla all’Iraq – come a voler creare un’insistente costellazione dell’orrore, priva di vie di fuga. Spesso si sente ripetere il luogo comune che siamo sommersi da una bulimia di immagini e notizie. Già, ma tali notizie, più che invaderci e toccarci, scivolano via tra mille altri episodi scollegati gli uni dagli altri, mentre nell’opera di quest’artista gli eventi si ripresentano pervicaci e concatenati insieme. Ciò che prima appariva diviso e isolato, perché determinato da situazioni particolari e locali, torna prepotentemente a essere parte di un tutto guidato da un’identica logica di sopraffazione. Il muro che lei scardina è infatti anche quello di chi ci presenta ogni accadimento come se fosse un banale episodio o un incidente di percorso, mentre le sue radici sono alimentate da un sistema basato sullo sfruttamento e l’esclusione.

 

Il granello d'oro
di Libera Mazzoleni

XX secolo ha visto muri terribili…
Quando alla fine del 1989 venne abbattuto il muro di Berlino, mi sono lasciata contagiare dalla speranza e ho pensato: mai più muri! Al crollo dell’Unione Sovietica mi sono detta: è finita la guerra fredda!
Qualcuno (F. Fukuyama) ha parlato subito di “fine della Storia” e ha cominciato a celebrare “l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale quale ultima forma di governo dell’umanità”.
Quattro anni dopo però un altro (P. Huntington) ha reintrodotto il conflitto nel cuore del mondo, dicendo che il “nuovo ordine mondiale”, sognato dall’Occidente liberale e liberista, era seriamente minacciato da “uno scontro di civiltà” che, opponendo culture e religioni diverse, avrebbe incendiato gli animi e scatenato una possibile guerra globale tra identità rigidamente contrapposte.
Allora, con la sensazione che la mia testa girasse e i miei piedi non riuscissero più ad appoggiare solidamente sul terreno, ho chiuso gli occhi e, come in un incubo soffocante, ho cominciato a vedere un’infinità di muri, muri per separare, per allontanare, per predare, per dominare, per uccidere…Ho trattenuto alcune di queste immagini che, provenendo dai luoghi agitati del cuore, si disponevano apparentemente senza un ordine, invece erano tenute insieme dal mio spaesato vissuto di orrore e di dolore.
La visione dei muri è sfociata dentro di me in una perplessa riflessione sul male: il male che la libertà sceglierebbe in vista del bene, il male che indifferentemente viene inflitto da un essere umano ad un altro essere umano, il male che si nutre di ossimori immorali, scatenando la guerra in nome della pace, compiendo l’ingiustizia in nome della giustizia, mascherando la violenza con l’ideologia della liberazione e della democrazia.
Ma la modalità riflessiva di un’artista non approda alla “chiarezza” del pensiero analitico, si ferma bensì sulla soglia di un’immagine che, nel silenzio della parola, pretende di dare visibilità all’orrore e alla durezza del male.
Così io mi sono trovata a incespicare tra sassolini acuminati di incertezze, assomigliando ad un vecchio cercatore d’oro, divenuto cieco per le fatiche; tastavo nel mio setaccio la sabbia, sperando che il giorno, consumato nel cercare, non fosse passato del tutto invano.
Nel mio setaccio ho trovato, come un granello d’oro, le parole sofferte di Primo Levi: “…se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è famigliare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero”

1 P. Levi, Se questo è un uomo-La tregua, Einaudi tascabili, Torino 1989.