1. L’ARTE COME SOGLIA
Forse l’arte è una soglia aperta all’inquieto vagare dell’anima, dove il tempo si raccoglie come durata, precaria unità di
un vivere che si scompone sempre in una successione spaesante,
e il divenire, nel suo oscillare tra presenza e assenza, si annuncia
come disorientante paradosso del senso.
Anche la durata è soglia, non dimora stabile. Il suo permanere
infatti è un continuo passare, un transito, un luogo intermedio,
dove l’orizzonte dell’accadere si affaccia sempre dentro
l’orizzonte del significare, portando alla luce quella curvatura
dello spazio nel tempo che dice l’insopprimibile
coappartenenza di mondo e io. Intrattenendosi sulla soglia della
durata, dove gli eventi affluiscono per essere raccolti e ripensati,
l’anima costruisce la sua esperienza, inizia il suo viaggio
nell’erranza, nell’instabilità del senso, che
la porterà ad interrogare quel mondo che sempre l’accompagna
e in lei giace come ricordo, emozione, immagine, presenza percepita,
sogno.
Sulla soglia dell’arte l’anima potrà raccontare,
nel linguaggio della poiesis, il suo complesso cammino tra le
tracce del tempo, che accade sempre in un determinato spazio
quale apertura che istituisce e dischiude il mondo.
L’espressione artistica di Libera Mazzoleni suggerisce questa metafora dell’arte come soglia aperta al transito di un’anima che, sapendo e vivendo la sua ineludibile coappartenenza al mondo, si sporge sul tempo e lo interroga là, dove l’Essere parla dentro una presenza sempre emergente da quello sfondo in cui gli eventi giacciono come storia, come trama incerta che trattiene il già accaduto
del possibile.
Sulla soglia dell’arte Libera Mazzoleni dice i percorsi della sua anima nei luoghi aurorali del senso e nei luoghi del suo tramonto, abitando un pensiero che non riesce a conciliarsi col proprio tempo e lasciando fluire le sue emozioni in immagini che possono trovare ospitalità solo nel linguaggio della poíesis, di quel fare che non è imposizione manipolatoria ed occultante dell’esistente,
ma disvelamento.
La poiesis è infatti un “condurre alla presenza” che
sfida la violenza dell’oblio, è un fare che non prende
congedo dalla memoria e non si lascia sedurre dallo sguardo di
Epimeteo, che non sa vedere lontano dimora nell’accecante
luce dell’immediato.
La poíesis invoca sempre le Muse, che sanno e custodiscono il Tempo, legando insieme ciò che è stato, ciò che è, ciò che sarà.
Nel fare della poíesis Libera Mazzoleni traccia segni e dà forma ad eventi entro i quali la storia non riesce più a scorrere come percorso lineare; essa si affaccia infatti come luogo aporetico, labirinto inquietante, percorso tortuoso che si snoda tra speranze soffocate, esclusioni, scarti, contrasti, omissioni, rinvii, ricorsi annichilenti, silenzi colpevoli, miserie. In essa risuonano le parole di Antigone che, misurandosi con le leggi della Città e meditando sull’agire dell’uomo, non esita a chiamarlo “Il più terribile” tra
gli esseri che abitano la terra.
“Molte sono le cose terribili.
Nessuna è più terribile dell’uomo”.
L’artista insomma non si conforma alla storia raccontata, ma la cerca, la interroga e la trascrive, portando alla luce le utopie e gli idoli che identificano le diverse temporalità entro cui si iscrive il destino dell’Occidente.
Il suo linguaggio, ora grafico, ora pittorico, ora realistico, si articola
dentro un segno sintetico, forte e tenue, deciso e tremante, che sempre rinvia
ad un’ulteriorità di senso.
Il colore esplode, catturando lo sguardo che è così costretto a sostare dentro una luce che svela nessi tremendi, oppure si stempera in tonalità soffici per dire il sogno e il desiderio, oppure si cancella nel nero di una notte abissale per ricordare l’enigma dell’esistenza.
I ventitre pannelli testimoniano e visualizzano un’interiorità che non si ritrae, che non evade, che non si consola nel gioco estetizzante di una creatività esaurita
nella ripetizione di forme sempre uguali, chiamate stile.
Ci si trova di fronte infatti ad una soggettività ostinatamente radicata nel mondo, che affida ai segni e alle molteplici variazioni del loro ritmo il compito di comunicare la tensione interna di un páthos tragico, di un patire multiforme che conosce la lacerazione, la duplicità,
il rincorrersi inquietante del senso e del non senso nella nostra vita di ogni
giorno.
2. TRA ALETHEIA E TECHNE: IL DESTINO
DELL’OCCIDENTE
Il percorso artistico di
Libera Mazzoleni evoca un passaggio, i cui estremi raccontano due
diverse temporalità: quella inaugurata dal pensiero aurorale raccolto nell’orizzonte tracciato da Alétheia che dice l’Essere nella “Cura”; quella aperta dalla “ragione calcolante” che dice l’Essere come infinita manipolazione dell’esistente e si dispiega nel fare smisurato della Téchne.
Entrambe rinviano ad un’origine, che nel tempo si declinerà, da un lato, come oblio e, dall’altro,
come compiuta realizzazione.
La Sapienza, racchiusa nella parola greca delle origini, nomina
Alétheia come la Verità, facendola coincidere con lo stesso dischiudersi dell’Essere
che si rivela nello spettacolo del mondo.
Lo sguardo, che lo vede, si riempie di stupore e di meraviglia.
Il discorso, che lo racconta, costantemente rinvia all’Essere come grembo accogliente e dimora sicura di tutto ciò che appare nel tempo, essendo il tempo il ritmo stesso dell’Essere
nel suo manifestarsi.
Il pensiero, che lo pensa, dice l’Essere come un dono, cui l’uomo
corrisponde nella forma della Cura, che continuamente rinnova lo
stupore e la meraviglia.
Nei pannelli: Alétheia, Méleta tò pan, Eleúthera,
Libera Mazzoleni evoca questa origine, che la temporalità dominata dalla Téchne allontanerà da sé.
Su uno sfondo colorato, le lettere dell’alfabeto greco compongono la parola Alétheia, richiamandola dalla notte dell’oblio
e svelando nuovamente lo spettacolo del mondo da custodire nella
Cura.
Dentro la profondità del blu, che si lascia toccare da un giallo acceso, l’artista riscrive l’invito di Periandro: “Melèta tò pan”, “Abbi cura del tutto”, lasciando cadere alcune lettere dell’alfabeto
sulle ali variopinte di farfalle in volo. Esse si poseranno sia sulla
bellezza luminosa del fiore, sia sul freddo grigiore del cadavere,
alimentandosi ora del dolce nettare del fiore che vive, ora del siero
putrescente che il cadavere secerne.
Abbi cura dunque della vita e della morte, che insieme scandiscono
il ritmo temporale di ogni esistenza, rendendola infinitamente preziosa
nel suo precario svolgersi.
L’artista si intrattiene tra le parole pronunciate dalla sapienza greca per ritrovare e significare l’atteggiamento umano adeguato alla “Cura”, che, nel pannello Eleúthera, sembra risuonare come un libero corrispondere al dono dell’Essere.
Le lettere, diversamente colorate e disposte su differenti sfondi,
scompongono la parola nel tentativo di farla vibrare in tutta la
ricchezza e l’intensità dei suoi rimandi di senso.
Eleúthera, libera, sciolta da contesa, dice infatti quel modo
di soggiornare nel mondo che allontana da sé la
cattiva Eris, lo scivolare della Discordia nella violenza tracotante
e smisurata della Hibris che spezza i legami col Tutto per imporre
la tirannia mortale di una parte.
Alétheia, Melèta tò pan, Eleúthera vengono così pensate da Libera Mazzoleni come parole solidali, capaci di descrivere l’orizzonte della “Cura”, dove accade quel “lasciar essere” che consentirà allo sguardo di continuare a guardare con stupore e meraviglia la multiforme varietà del Tutto e solleciterà l’agire dell’uomo
a corrispondervi nel rispetto accogliente.
L’artista sembra voler sostare più a lungo in questo luogo dell’anima che dice l’incanto e l’enigma dell’UnoTutto
e per questo si affida al gesto poetico di una bambina.
Nel pannello Arianna, che ospita
un disegno infantile, si affaccia infatti la notte narrata dal Mito,
che custodisce l’origine.
Dall’apertura abissale del Chaos, in cui tutto giace avvolto nell’attesa, emerge la luce del Kosmos come parola che annuncia la compiutezza dell’UnoTutto
nelle sue molteplici declinazioni.
Chaos e Kosmos, nel loro fecondo intreccio e nel loro continuo rimando,
evocano l’orizzonte che Anánke, la Necessità, traccia come sicura dimora in cui l’Essere soggiorna e si raccoglie presso di sé,
per sempre sottratto alla violenza del Nulla.
Dentro il palmo di una mano dai contorni incerti si riflettono le
stelle che il cielo custodisce e la guglia di una fragile casa appoggiata
al suolo, quasi a voler ricordare non solo la condizione dell’uomo sospeso tra cielo e terra, ma anche la sua modalità di esistere come destinatario dell’annuncio e custode di ciò che
in esso si manifesta.
In Sistema decimale compare
un’altra mano dalle dita aperte, che indicano un insieme di segni tracciati nel tentativo di ordinare i molti che abitano il mondo. E’ forse una metafora del pensiero del numero che, ricondotto dall’artista alla sua origine sensibile, risuona non come astrazione, ma come simbolo della segreta armonia impressa da Anánke all’universo,
che giace nello spazio circoscritto di una mano aperta.
Pensato come matrice di senso del finito, il numero, figura delle
dita che contano un molteplice, dice la misura come ordine, modello
e paradigma eterno di ciò che diviene e si manifesta nel tempo.
L’orizzonte dischiuso dal numero è dunque quello del
simbolo che sempre rinvia ad un’ulterioriorità di senso,
portando lo sguardo oltre l’immediato. Il numero racconta insomma
la trama segreta della phisis (natura) che la mano dell’uomo
richiama.
Risuonano le parole di Eraclito: “La trama (armonia) nascosta è più forte di quella manifesta”; “L’Uno, in sé disgiungendosi, con sé si congiunge”.
Intrattenendosi con le lettere dell’alfabeto greco e riscrivendo le parole della sapienza in un gioco cromatico che le strappa dall’oblio e ne riaccende il senso profondo, Libera Mazzoleni ha ripercorso le tracce del pensiero aurorale, affidandosi al gesto poetico di una bimba e quasi riproducendolo in quell’altra mano che evoca la matrice estetica, cioè sensibile
e percettiva, di ogni conoscenza rivelatrice del mondo.
La temporalità, dischiusa da Alétheia, si svolge nel segno della cura e della misura, che sempre rinvia ad Anánke, la Necessità, come rapporto stabile e legge di Giustizia (Dyke) che vincola a sé gli dei e gli uomini e nello stesso tempo presiede l’accadere della Terra, conservandola nell’orizzonte dell’Essere.
I pannelli successivi descrivono invece un mondo lacerato, violato,
contraddittorio, violento, che continuamente allude al fare smisurato
della Téchne.
Si affaccia un’altra temporalità, contraddistinta dal disincanto che celebra l’infinita manipolabilità dell’esistente, costringendo la Terra a manifestarsi solo dentro quelle relazioni di calcolo, che consentiranno di trattarla come “fondo” da “provocare”, da chiamaredavantiasé nella presenza, all’insegna
del dominio.
Prendendo congedo dal pensiero, che vive unicamente nel domandare
il senso di ciò che via via si manifesta, l’uomo occidentale si affida alla “ragione calcolante” per
realizzare quella signoria sul mondo che il Dio biblico gli addita
come compito ineludibile, dopo averlo creato a sua immagine e somiglianza.
“Poi Dio disse: formiamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sopra
i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte
le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie” (Genesi,
1,26).
L’artista richiama questa origine, che ha inaugurato il soggiorno dell’uomo sulla Terra come progetto di dominio su ogni specie vivente, e la porta alla luce come smisurata volontà di
potenza e devastante nichilismo.
Il Nulla, che il Dio biblico ha evocato nell’atto del creare, accompagnerà sempre l’uomo come estrema tentazione e risorgerà sempre
nel suo fare come rischio e segno di potenza.
Libera Mazzoleni guarda dentro il freddo cuore di questo Nulla e lo svela, portandolo
alla luce:
- nel colore rosso del sangue che travolge sia la Statua della Libertà,
sia i tentativi di resistenza espressi da culture esoteriche residuali,
- nella bomba atomica cinicamente raccontata dal marchio della Coca
Cola,
- nelle mine giocattolo che adescano e mutilano i bambini,
- nelle Cluster bombs che cadono dal cielo azzurro, distruggendo
e contaminando il suolo,
- nella clonazione che reifica ogni “corpo vissuto”,
scomponendolo in parti disanimate infinitamente riproducibili e pronte
per l’uso,
- nella spaesante confusione tra reale e virtuale che moltiplica
e sovrappone seducenti immagini di mondo, rendendo superflua ogni
esperienza diretta di viaggio - - tra la natura e i luoghi abitati
della terra,
- nei corpi ridotti a marionette e maschere posticce,
- nei volti soffocati e nelle membra straziate delle donne,
- nella violenza e nell’odio sprigionati da guerre combattute
per cancellare la diversità dell’altro,
- nell’efficienza tecnica, paranoicamente perseguita, per produrre
cadaveri a ritmo industriale,
- nell’annichilimento di quel pensiero, in cui si raccoglie
la profondità della
memoria e il bisogno di futuro
- e nella conseguente imposizione di una temporalità contratta
e costretta dentro il presente, sempre presente e sempre nuovo, della
rete informatica, dove l’evento
si risolve e si consuma nella stessa immagine che lo visualizza.
Nel raccontare questa potenza del Nulla, il segno dell’artista
si fa realistico e quasi fotografico, oppure si stempera in tratti
tremanti e quasi evanescenti, oppure si essenzializza in poche linee
decise e nello stesso tempo tortuose.
Il colore esplode come un grido, o sfuma in tonalità verdastre, azzurrate, rosate, nel tentativo di dire l’ambiguità e l’ambivalenza di una modalità alienata di esserenelmondo, perduta in un presente dalla portata planetaria, ma congelato nell’”adesso” dell’attimo che sempre risorge, senza nulla trattenere, perché privo
di durata.
Con questi segni, con questi colori, Libera Mazzoleni fa emergere
il Nulla, che ci accompagna come esito di quella modalità di produrre che mette in gioco la vita stessa dell’umanità, o la impoverisce dentro un arido e umiliante conformismo, dove ogni libertà si annichilisce e l’esistenza
sprofonda in un meccanico, monocorde, anonimo esercizio di adattamento,
per la sopravvivenza.
3.
“ERITIS SICUT DEI”
L’artista ci introduce nella temporalità identificata dalla Téchne
con due pannelli di passaggio, Uroborus e Analogie,
che accostano e contrappongono:
- sapere e sapienza,
- ragione calcolante e pensiero esoterico,
-
infinita calcolabilità del
Tutto e visione magicodivinatoria del numero, dove il Tutto giace
nella permanenza dei rapporti segreti tra le sue parti,
- libertà come
dominio sul mondo e libertà come armonica coappartenenza dell’io
e dell’universo.
Si tratta di due mondi antitetici che inizialmente sembrano poter
coesistere, anche se la figura della sapienza, l’Uroboros, è presente come frammento, quasi ad indicare la precaria sopravvivenza di una visione residuale e minoritaria, ormai sull’orlo dell’oblio.
Successivamente i due mondi sembrano dileguare, affondando nello
stesso sangue, che sommerge una Statua della Libertà traballante
e risucchia il contenuto mistericosapienziale di un vaso alchemico
rovesciato.
Dapprima tollerata, l’alterità insita nella differenza
ora si dissolve; i diversi sono infatti travolti nello stesso destino
di morte.
E’ questa tragica identità che Libera Mazzoleni annuncia nel pannello Analogia,
dove il Nulla si fa avanti nella figura dell’indifferente uniformità, che toglie senso persino all’ideologia che l’ha
generata, facendola apparire come violenta imposizione priva di alcun
fondamento.
L’artista ci sta dicendo che un mondo avviato verso il dominio di un pensiero unico è una costruzione artificiale e dunque mortale, perché pretende di cancellare l’evidenza, la quale attesta -come già sottolineava H. Arendt- che “non l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta” e che, proprio per questo, “la pluralità è la legge della terra”.
“Uroborus” dice questo avviarsi, “Analogie” ne rivela l’esito
nichilista.
Richiamiamo ora il possibile significato delle figure della sapienza, incarnate
nell’Uroborus e nel vaso alchemico.
Il serpente, che tiene in bocca la sua coda variopinta, congiungendo inizio e
fine, è metafora dell’eterno ritorno dell’identico, che sempre accade e si manifesta nella multiforme varietà dello
spettacolo del mondo.
Simbolo della ruota cosmica, esso descrive uno spazio circoscritto, dove la Necessità, che governa il cielo e la terra, si dispiega come ritmo e misura che garantisce e conserva l’Essere
nel suo svolgersi nel tempo.
L’identità, evocata nell’eterno ritorno, non è nichilistica uniformità, ma legame che apparenta i molti, analogia tra macrocosmo e microcosmo, rapporto in cui l’uguale e il diverso si richiamano costantemente e si completano, portando allo scoperto un vincolo di vitale solidarietà.
E’ questa stessa analogia che nel vaso alchemico viene raccontata.
Simbolo del processo di purificazione che porta alla luce l’oro racchiuso nel cuore dell’uomo e del mondo, la sapienza alchemica interroga il numero nel suo significato sacro e divinatorio, per dire quel rapporto che, avvicinando macrocosmo e microcosmo, rivela la segreta armonia dell’universo e avvia così il processo di metamorfosi del Sé,
come cammino iniziatico alla ricerca della pietra filosofale.
Mentre evoca lo spegnersi di questo antico sguardo, l’artista accenna anche
al nuovo che sta irrompendo come un sapere capace di soppiantare tutte le espressioni
della sapienza.
Oltre lo spazio delimitato dall’Uruboros, in cui si congiungono inizio e fine, c’è infatti
un altro spazio, aperto e senza linee di confine, abitato e dominato dal Numero
che si ripete e si sdoppia, assorbendo i colori del cielo e della terra.
Se nella ruota cosmica i punti dell’universo si uniscono, tessendo la trama della Necessità che vive nell’analogia, cioè nella familiarità delle
parti con il Tutto, lo spazio aperto annuncia il Tutto come abisso del possibile
e radicale contingenza.
L’effetto di spaesamento e l’angoscia del naufragio nell’immensità dell’illimitato invocheranno una misura che dovrà essere così potente da riuscire ad imbrigliare un universo che fugge via, a governare la minacciosa instabilità del contingente, a dominare l’imponderabilità del
possibile.
Nasce la scienza come sapere praticooperativo, esplicitato nel fare della Téchne, che consentirà all’uomo
di diventare padrone del mondo.
Allontanandosi dal pensiero che si interroga sul senso di ciò che si manifesta, l’uomo si affida alla ragione calcolante. Questa, sviluppandosi come matematizzazione universale, risolve e dissolve la realtà nella
funzione matematica che la esprime e nel progetto che la anticipa, predisponendola
in schemi e modelli astratti, interamente controllati dalla pratica scientifica.
In questa nuova ottica il mondo esiste solo come immagine astratta del mondo
e la natura solo come ipotesi matematica anticipata.
Anche il senso del numero cambia. Diventando oggetto astratto, sconnesso
e separato dal mondo spazio temporale di cui gli uomini sono parte
e in cui soggiornano, il numero esiste di per sé, come entità assoluta, senza vincoli e senza rimandi. Esso si impone come il nuovo infinito che non crea angoscia, perché completamente percorribile nel calcolo e completamente dicibile nella funzione matematica che soppianta l’esistente, smaterializzandolo in entità non
sensibili.
Il numero insomma cessa di essere sia il segno di una grandezza limitata
che descrive l’essenza dell’ente particolare, colto dallo sguardo nella sua presenza corporea, sia il simbolo che rinvia all’ordine
del Sacro.
Il numero non dice più né il limite, né il rinvio, perché ha assorbito la natura in un sistema concettuale e astratto, che ha trasformato le cose in prodotti della soggettività umana.
Nel mondo dischiuso dalla ragione calcolante, il numero diventa dunque
il linguaggio e la misura imposti dall’uomo all’Essere, che d’ora in poi potrà accadere solo dentro i parametri dell’infinita calcolabilità.
Le cose, dissolte nel calcolo che dice la loro funzione, non avranno
più nemmeno bisogno di essere nominate, perché esisteranno solo nella riproducibilità e nell’interscambiabilità della
funzione che le pone in essere.
Trasferito in uno spazio matematicamente precalcolato, ciò che è nell’instabilità della contingenza viene così condotto
e costretto a disporsi entro i confini che la ragione calcolante,
di volta in volta, traccia e gli assegna come condizione necessaria
del suo essere e del suo stesso darsi.
Si affaccia un nuovo sguardo, cieco e indifferente alle cose, ormai
naufragate nel mare sconfinato dell’astrazione che le copre e le avvolge dentro il formalismo di un’equazione o di una funzione, predisponendole così per il dominio dell’uomo.
E’ lo sguardo della Téchne, compiuta realizzazione della
ragione calcolante, che declina il sapere come potere smisurato.
In questo nuovo orizzonte ogni cosa va dunque incontro ad una perdita
di senso dal momento che la sua essenza non rinvia più all’Essere che la custodisce, significandola come sua manifestazione; rinvia bensì al
progetto che la pone in essere, decidendo, nel calcolo, la sua funzione.
Confrontando i pannelli “Uroboros” e “Analogie”, si può dire che Libera Mazzoleni ha evocato la potenza del numero e il naufragio del senso, l’infinita calcolabilità e la perdita del mondo, l’imporsi di uno sguardo pratico operativo che uniforma tutto e lo svanire della pluralità delle visioni che rinviano all’esistenza
come slancio e tensione polimorfi.
In particolare “Analogie” porta alla luce l’esito del percorso, il deserto e la desolazione dell’uniformità, nonché il nichilismo che si annida nel fare smisurato della Téchne.
Accostando l’emblema del mondo scandito dai ritmi della tecnica al vaso alchemico rovesciato e affondando entrambi nel sangue, “Analogie “dice l’insensatezza che governa la nostra vita, l’impossibilità di percorrere le vie della sapienza e lo svuotamento stesso della parola libertà, che ha ritmato il cammino della modernità verso l’instaurazione del’ “regnum hominis” sulla
terra.
Nell’universo della dismisura libertà e sapienza sono completamente destituite di senso e per questo abortiscono, naufragando nello stesso destino di morte. Esse non possono avere dimora nel nuovo e unico orizzonte, perché il fine, che perseguono, non è l’efficienza
pratica, ma un valore etico capace di tenere insieme pensiero e speranza.
E’ forse questa impossibilità a rivolgere lo sguardo al senso e a corrispondere all’Essere nell’”etica della Cura”, l’identità rovinosa portata alla luce dall’artista nel pannello “Analogie”.
La Téchne distende un velo di grigia uniformità sull’esistente, che scompare nella prassi raggelante della ragione matematica. Questa infatti sottrae ad ogni luogo la sua proprietà, ad ogni cosa i suoi colori, ad ogni corpo senziente i segni distintivi di quella storia unica che porta dentro di sé e
rinvia a quel soggetto, altrettanto unico, che lo abita.
Nell’equivalenza indifferente dello spazio infinitamente calcolabile è il ”fare” che traccia l’orizzonte del possibile, creando il mondo come affollato regno degli “utilizzabiliacquisibili”; è il “fare” che detta le condizioni all’essere e all’esistenza.
Si tratta però di un fare senza limiti, che trova la sua giustificazione in sé stesso, indipendentemente da ciò che
si fa.
Il suo fine e la sua ragion d’essere consistono nel produrre, inteso come continuo “mandare ad effetto” ciò che la ragione scientifica progetta. L’efficienza, con cui si annuncia e si impone, non significa altro che “capacità, potere di produrre” ogni cosa. Essa coincide dunque col principio della pura funzionalità priva
di ogni riferimento che non sia lo stesso perpetuarsi del fare funzionale
alla produzione.
Nella Téchne l’uomo porta così a compimento la promessa del serpente: “Eritis Sicut Dei”.
Essendosi imposto come misura di tutte le cose, sia di quelle che
sono in quanto sono, sia di quelle che non sono in quanto non sono,
l’uomo occidentale si è costituito come lo stesso fondamento
del loro essere e del loro non essere, come colui che determina o
respinge il loro stesso accadere.
Il fare della Téchne risuona dunque come smisurata volontà di
potenza che decide non solo della vita e della morte, ma anche del
come vivere e del come morire.
Rompendo i vincoli di Anánke, che ad ogni ente affida la sua parte nel Tutto, presiedendo e custodendo lo stesso accadere della Terra, l’uomodio continua a provocare la Terra, innestando processi che mettono in gioco l’esistenza stessa dell’umanità e
ne stravolgono il senso.
Evocando la potenza del Nulla, già richiamata nell’atto creatore del Dio biblico, l’uomo, demiurgo onnipotente, crea il suo mondo ad una dimensione, dove “ogni bellezza di individualità” (Hegel) è cancellata nell’anonimia e nell’omologazione, dove ogni “pomposo discorrere svuota la ragione e inaridisce il cuore” (Hegel), dove il soggetto nasce nella forma dell’assoggettamento ad un potere pervasivo che esalta e concede la libertà solo
come conformismo.
L’artista ci introduce in questo mondo identificato dalla planetarietà della Téchne,
con il pannello Genesi.
Con un tratto ruvido, ispido, infiltrante, disegna figure di topi
rossi color sangue, con corpi deformi che ricrescono su loro stessi,
come orrende escrescenze carnose, raddoppiandosi, triplicandosi,
sviluppando più teste.
“Genesi” sembra richiamare contemporaneamente l’origine dell’uomo, contrassegnata dal comando divino a dominare su tutte le forme viventi presenti sulla terra, e l’origine della vita in laboratorio, dove la scienza, fedele a quel comando, coltivando cavie, celebra l’avvenuto dominio, che si esprime nell’invenzione di una vita costretta dentro rapporti capaci di mettere al mondo nuovi esseri, o frammenti di materia vivente da utilizzare per “riparare” corpi
in avaria.
La creazione, come processo di infinita manipolazione, prosegue e completa sulla
terra la creazione ex nihilo, sognando di sconfiggere la morte.
I corpi si possono modellare e sezionare in parti che è possibile impiantare in altri corpi assolutamente uguali nelle loro funzioni; si possono riprodurre e moltiplicare con la clonazione che, rendendo superfluo e inutile il contatto con l’altro, afferma l’autosufficienza
di un processo autogenerativo artificiale.
Nel santuario asettico del laboratorio si celebrano i fasti della
Téchne che, avendo carpito alla vita i suoi segreti, la costringe
a riprodursi al di fuori del suo processo naturale e ad incanalarsi
dentro le regole della manipolazione infinita.
La potenza dell’artificiale, che ha soppiantato il naturale, descrive un mondo straniato e straniante, dove anche reale e virtuale si confondono, dove la parte domina sul tutto che, nell’artificio,
esiste unicamente come assemblaggio di pezzi indifferenti.
L’artista può morire, ma una mano, che può essere sia la sua, clonata e moltiplicata in laboratorio, sia una protesi sofisticata, può continuare a muoversi, tracciando segni col pennello. Il soggetto non è più necessario, l’importante è creare le condizioni perché una certa funzione possa perpetuarsi al di là del
soggetto.
Genesi e Clons of art portano
alla luce la sinistra onnipotenza del fare violento della Téchne che costringe l’infinita varietà della natura a mostrarsi solo dentro la categoria dell’utilizzabile e dell’artificio.
Gli utilizzabili sono disseminati nel mondo, dove giacciono nell’indifferente equivalenza dell’oggetto
a portata di mano.
Nel pannello omonimo Gli
utilizzabili, le
mine giocattolo dalle ali di farfalla inviteranno la mano del bambino
allo stesso modo della caramella nella carta colorata, perché gli
ordigni di morte abitano lo stesso orizzonte degli oggetti quotidiani
dal momento che rispondono ad una funzione ugualmente necessaria
in un mondo che persegue unicamente l’efficienza.
Anche la bomba atomica è un utilizzabile.
Ricordando il nome della madre del pilota che non aveva esitato
ad usare quello stesso nome per battezzare il suo bombardiere carico
di morte e trascrivendolo coi caratteri familiari del marchio della
Coca Cola, l’artista allude al silenzio delle coscienze e alla
conseguente perdita di ogni criterio di giudizio di fronte al potente
fascino degli utilizzabili.
Il ventre del bombardiere, che accoglie e trasporta un ordigno di
morte, viene confuso e scambiato col ventre materno che accoglie
e genera la vita.
I caratteri del marchio della Coca Cola confondono la bomba atomica
con un oggetto di consumo quotidiano, eliminando la distanza che
li dovrebbe separare.
Nella mente assopita passa così la convinzione che entrambe
sono funzionali ad un bisogno legittimo e quindi opportune e necessarie,
per cui non avrebbe senso distinguerle.
Lo stesso vale per le Cluster bombs che
volano nei cieli in compagnia delle farfalle, per poi esplodere,
devastando corpi e luoghi, o posarsi al suolo come oggetti indifferenziati
che qualcuno urterà, come si urta un sasso qualunque, o distrattamente raccoglierà,
non riconoscendo la loro funzione mortale.
Il regno degli utilizzabili, descritto da Libera Mazzoleni, richiama
la figura retorica dell’ossimoro, dove l’insensato diventa
dicibile.
Come nell’ossimoro viene alla luce quel “legame folle” che accosta in una stessa espressione termini di significato opposto, così nel regno degli utilizzabili, la morte diventa vita, la guerra diventa pace, l’ordigno esplosivo diventa giocattolo, il superfluo diventa necessario, lo strano diventa familiare, l’oggetto diventa soggetto, il mezzo diventa fine, l’inconcepibile
diventa pensiero ordinario.
L’artista prosegue la sua esplorazione dentro il mondo dei “folli legami” posto in essere dalla Téchne, fermando la sua attenzione sul corpo, che la persona abita e grazie al quale si fa presente agli altri nella sua singolarità.
I tre pannelli, Figure ad una dimenensione, Il violone delle
comari, The Women and the War, tracciano
un itinerario di violenza che, prima, disgiunge il corpo dalla persona,
trasformandolo in guscio vuoto, e poi lo tormenta e lo calpesta,
nella sua espressione femminile, come intollerabile veicolo di un’alterità da cancellare
e umiliare.
Continuamente manipolato e modellato per eliminare i segni del tempo
che testimoniano il divenire e la precarietà dell’esistenza, il corpo cessa di esistere come quel “corpo vissuto”,
in cui si raccoglie il mistero profondo di un soggetto unico ed irripetibile.
Diventa immagine e si disanima.
Occupando lo spazio effimero dell’apparire, si esibisce come
maschera posticcia, forma vuota, riempita di volta in volta dal personaggio
che la scena reclama. Come una marionetta, recita il ruolo del maschile
e del femminile nella versione decisa dal burattinaio di turno e
scambia questo movimento eterodiretto per vita.
L’uomo e la donna, l’uno di fronte all’altra come figure ad una dimensione che hanno bisogno di appigli per tenersi in piedi, non riescono nemmeno a vedersi. I loro sguardi guardano altrove, non si incontrano e così non incontrano il volto dell’Altro,
che sempre ci interpella, scardinando la h_bris narcisistica del
Medesimo.
Infinitamente lontani nel loro essere vicini, quei corpi descrivono
la distanza raggelante del narcisismo che, mentre si compiace di
un’immagine riflessa, riafferma il Medesimo, affondandolo e soffocandolo però nel deserto dell’assenza.
Libera Mazzoleni avvolge questi corpi perfetti in uno stesso colore,
il verde, che non richiama il pulsare del sangue e della vita, bensì li raggela, quasi a sottolineare l’anonimia dell’involucro
vuoto che li destituisce di senso.
Continuando la sua riflessione sul destino del corpo, l’artista porta ora alla luce la matrice fondamentalista di ogni pensiero unico come pratica di intolleranza che sempre colpisce l’Altro in ciò che gli è più proprio e lo presentifica al mondo nella sua irriducibile singolarità.
Il pensiero unico è sempre un falso universale, perché annulla l’esistenza del particolare, perseguendo un’identità chiusa in sé stessa, arida, sradicata da ogni relazione con l’Altro e intrinsecamente violenta perché rifiuta
lo scambio e la differenza.
Ogni universale, che uniforma ed esclude, è infatti falsa astrazione e doloroso nichilismo, dato che non si declina come il concreto ed ineludibile coesistere della pluralità che
abita la terra.
Ogni identità è delirante solipsismo se non si costituisce, transitando in quell’alterità che
apre il suo stesso orizzonte di senso.
Sia nella sua versione laica, sia nella sua versione religiosa, il
pensiero unico, come falso universale, non può essere che sinistra ideologia dell’intolleranza.
Punto zero del pensiero, essa sprofonda nella cecità della violenza che celebra la morte e l’umiliazione dell’Altro
come condizione necessaria della sua stessa sopravvivenza.
L’artista coglie questa alterità soppressa e violata nel destino del corpo femminile, che l’Occidente cristiano e l’Oriente mussulmano, nella loro unilateralità maschilista, hanno ricacciato nella notte nera dell’assenza, della vergogna, della marginalità.
Nel suo corpo la donna non solo è testimone vivente dell’incancellabile alterità dell’Altro e dunque radicale smentita di ogni universalismo a senso unico e di ogni identità costruita nel solipsismo del Medesimo, ma, sul piano simbolico, la donna è anche e soprattutto spazio e luogo dove avviene l’incontro, la mescolanza col diverso e, nell’incontro, la creazione e il continuo riaffacciarsi dell’Altro.
Nel pannello Il violone delle comari,
la gogna, quale strumento di tortura spesso destinato dal potere
ecclesiastico alle donne che in questo modo venivano costrette a
portare nel corpo il marchio della loro esclusione e della loro condanna
al silenzio, è ricordata insieme al burka col quale l’uomo, tuttora, nasconde la donna, cancellando il suo corpo e il suo volto nel tentativo di negare la presenza dell’alterità e di impedire che questa intervenga nell’ordine maschile del mondo, sovvertendolo con la sua carica di novità e
di intelligenza.
Gli occhi vuoti dell’autoritratto dell’artista, collocati tra la gogna e il burka quasi a suggerire una tragica continuità tra passato e presente, dicono la cieca storia di una negazione secolare che ha imposto alle donne un modo di esserenelmondo contrassegnato dall’assenza e condannato a consumarsi nel buio dell’uniformità, che attesta il soccombere della pluralità e
della differenza.
Sullo sfondo affiora una figura che, nella simbologia circolare del
ventre e negli arabeschi con cui talvolta si ornavano le statuette
litiche, evoca un’antica dea madre.
Con la gogna al collo e il sesso bagnato di sangue, la dea sottolinea
l’atavica violenza che il corpo femminile subisce nella morsa che attanaglia la gola, soffocando il respiro e la parola delle donne e nello stupro che lacera e contamina il loro ventre, dissacrando il luogo dell’origine, che sempre rinvia all’Altra,
da cui ciascuno proviene.
Lo stupro, che il maschio rinnova in tutte le guerre, dove sempre
si combatte per eliminare ogni corpo estraneo in quanto minaccia
all’autoreferenzialità del Medesimo, è la rivoltante espressione della messa a morte del Noi. Esso infatti non solo distrugge la possibilità dell’incontro con l’Altro, ma si appropria del corpo della donna in quanto potere di creazione dell’Altro, per imprimervi il marchio del Medesimo che continuamente ritorna su se stesso, sopprimendo quell’”umano”,
di cui il maschile e il femminile sono declinazioni diverse e complementari.
E’ questo corpo di donna, trafitto, trapassato, piagato da ferite che non potranno guarire, respinto e condannato a vivere nella vergogna e nello strazio di un dolore senza più parole, che testimonia l’orrore
di cui si copre il mondo, quando il pensiero unico si impone sul
pensiero della differenza.
Nel pannello The Women and the war,
l’artista mette in scena
lo stupro come atto che conclude e completa il significato stesso
della guerra.
Con pochi tratti descrive lo strazio di un corpo sfigurato e reso
deforme dal barbarismo di una violenza cieca, carica di odio, che,
non tollerando il volto dell’Altro, lo piega al suolo, cacciandolo nella polvere e ribadendo in questo modo il potere del maschile nel suo essere soggetto e padrone dell’esistenza.
Libera Mazzoleni ha rivisitato il percorso che l’uomo, come
demiurgo onnipotente, ha compiuto per imprimere la sua signoria sulla
Terra.
Il mito dell’efficienza tecnica, che dissolve la natura, uomo compreso, in puro fondo da sfruttare smisuratamente, e il pensiero unico, col suo corredo di intolleranza, guerra, stupro, pratiche di eliminazione dell’altro, quali espedienti per affermare ed imporre l’intrascendibilità del Medesimo, hanno scandito l’unilateralità come totalizzazione soffocante e naufragio dell’umano.
Divenuto cosa da manipolare, da conformare, da omologare, da sacrificare,
l’essere umano si è predisposto ad esistere nella forma dell’oggettivazione e dell’assoggettamento ad un sistema che, in quanto Soggetto Unico, determina la sua modalità di
esserenelmondo.
Ritessendo coraggiosamente la trama della memoria, che restituisce
al presente il suo spessore e al pensiero la profondità necessaria per risvegliare il sentimento etico della vita, della sua qualità, della sua dignità, del suo senso, l’artista evoca anche l’abisso del Nazismo. Come laboratorio in cui si è sperimentata e perseguita la negazione dell’umano, esso ha rappresentato -come già diceva Jaspers- la prova generale della funzionalità di
un apparato tecnico al servizio e a sostegno di un totalitarismo
che si esaltava proprio come perfetta macchina di distruzione del
diritto di ogni uomo a vivere una vita degna.
L’artista porta alla luce la terribile commistione tra il pensiero unico della superiorità di una razza e la costruzione di un apparato tecnicoburocratico funzionale allo sterminio dell’Altro da perseguire nel massimo dell’efficienza; commistione da cui sono scaturiti un sistema politico e un’organizzazione sociale che rappresentano l’orrore
e la vergogna del Novecento.
Nei pannelli, Un problema
tecnico e
Zyklon B, che si impongono
allo sguardo con il loro crudo realismo, la ricerca del mezzo più efficace, per eliminare col minor spreco possibile e nel minor tempo possibile migliaia di diversi, viene ricordata dall’artista come problema esclusivamente tecnico. Passando dal gas di scarico delle auto allo Zyklon B sprigionato nelle camere a gas, si trasforma infatti la morte in sterminio rapido e sistematico e si risolve così il
problema con successo.
Treblinka, Auschwitz sono fabbriche razionalmente organizzate per
produrre cadaveri a ritmo industriale, sono luoghi di lavoro, di
smistamento e di manipolazione del materiale umano, che funzionano
come un qualsiasi apparato produttivo.
La divisione del lavoro, la parcellizzazione dei processi produttivi,
la superiorità e la perfezione dell’organizzazione, che garantiscono l’efficienza dell’intero processo, consentono di trasformare un assassino in un direttore di produzione capace ed attento o in uno scrupoloso esecutore, responsabili unicamente del modo in cui svolgono la loro parte di lavoro, non delle finalità che,
con esso, il sistema persegue.
Diceva infatti Franz Strangl, direttore del campo di sterminio di
Treblinka, a Gitta Sereny, in un’ intervista: “Il lavoro di uccidere con il gas e bruciare cinque e in alcuni casi fino a ventimila persone in ventiquattro ore esige il massimo di efficienza. Nessun gesto inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo. Arrivavano e, tempo due ore, erano già morti. Questo era il sistema. L’aveva escogitato Wirth. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile”.
L’artista richiama questa continuità tra campo di sterminio e apparato produttivotecnologico nel pannello Oswiecim,
dove riproduce la cartina topografica di Auschwitz in
cui è ben
visibile il complesso industriale della I.G.Farben sorto poco lontano
dal campo.
Il lager, organizzato per produrre cadaveri, fornisce anche manodopera
all’industria della Farben, che a sua volta produce materiale per rendere più efficace
lo sterminio e per aumentare il potenziale distruttivo delle guerre
combattute dal nazismo
Colorando la mappa coi colori tenui e vivaci dell’acrilico, l’artista forse allude alle strategie di camuffamento dei luoghi di morte messe in atto dal nazismo per nascondere il suo vero volto, o all’alienazione che consente alla falsa coscienza di negare l’orrore in nome di un revisionismo relativizzante che uniforma tutto alterando il giudizio, ma richiama anche, nella varietà dei colori, la presenza, in quei luoghi di un’umanità plurale a cui la “pietas” della memoria potrà forse restituire valore, senso e dignità.
4. IL BISOGNO DI FUTURO
Nel suo complesso cammino per restituire
al tempo la profondità della durata, Libera Mazzoleni ha dolorosamente portato alla luce: lo smarrimento del pensiero nel quale siamo tutti coinvolti, il venir meno del soggetto capace di abitare il luogo del limite e quindi di distinguere, di pronunciare giudizi, di assumersi la responsabilità del cambiamento, lo svanire dunque della soggettività raccolta in quell’essenza che la costituisce come originaria apertura all’Essere
e non al Nulla.
Travolto e assorbito nel “si” impersonale del rassicurante senso comune, l’io si sfinisce, diventa esangue e allora si lascia irretire da una ragione dispiegata come controllo e dominio sull’esistente e affascinare da un’etica che celebra, nell’efficientismo e nel conformismo, i suoi valori. E così non si accorge di essere imprigionato in una visione del mondo totalizzante e intrinsecamente nichilista, che porta con sé la “distruzione di una vita degna di essere vissuta”, l’annientamento della tensione verso un’ulteriorità di senso, che contraddistingue l’esistenza come uno “sporgersi”, un “uscirfuori” dalla
situazione in cui di volta in volta si trova.
“Che cosa posso sapere, che cosa devo fare, che cosa posso sperare e chi è l’uomo?”-si chiedeva Kant, assumendo il limite e il finito quale misura dell’umano.
La nostra soggettività mutilata, che si è rinchiusa nell’affollato e scivoloso presente del tempo reale, ha invece dimenticato queste domande fondamentali, precludendosi così la
via per aprirsi a nuovi orizzonti di senso e accontentandosi di vivere come cosa
tra le cose.
“Je ne pense pas, donc je suis?” -
si chiede l’artista nel pannello
omonimo, rovesciando la formula cartesiana.
E’ questo oblio di sé, è questa rinuncia a ciò che ci costituisce come apertura e interiorità pensante, il sacrificio che il soggetto deve compiere per continuare a vivere nel mondo ad “una dimensione”, minato dal fondamentalismo e dall’intolleranza?
Nel pannello, le parole, che compongono la domanda, si frantumano in brevi sillabe
e si dissociano, esibendo lettere dell’alfabeto in ordine sparso e invertendone
anche la grafia.
E’ forse questo il modo di essere connotato dalla morte del pensiero: una danza nella notte che sbaglia i passi perché non vede, un movimento convulso e disorientato nell’illusione che produce miraggi, un saltellare svagato tra vicoli ciechi che non conducono da nessuna parte, un parlare che svanisce nel “flatus vocis” della
chiacchera dove ogni parola diventa assordante rumore?
“Je ne pense pas, donc je suis?” -si chiede l’artista e la sua domanda forse non allude solo al silenzio del pensiero che degrada l’esistenza al livello del semplice vivere, ma risuona anche come invito a liberarsi dalla tirannia della ragione cartesiana, che ha declinato il pensiero unicamente come metodo matematico e visione quantitativa del reale, indifferente al senso dell’essere e dell’esistere.
Ogni liberazione è oltrepassamento della situazione in cui ci si trova, è un tracciare la via che conduce fuori dalla prigione soffocante dell’unilateralità dell’immediato, è capacità di immaginare il futuro, di sciogliere i lacci che strangolano il tempo in un’asfissiante
ripetizione del Medesimo.
L’immaginazione infatti è quel protendersi sul “nonancora”, che apre l’orizzonte del possibile, facendolo scaturire dal cuore stesso del reale, dove giace come ulteriorità di
senso spesso rimossa.
A differenza della fantasia, che è fuga dalla realtà in quanto costruzione di universi paralleli abitati da una soggettività tutta privata, incapace di vedere e di udire gli altri perché si è allontanata dal mondo comune, l’immaginazione
si radica nella sfera del percepito, trattenendo le percezioni passate e prospettando
quelle possibili in un movimento che, nel presente, collega passato e futuro.
Integrando ed arricchendo continuamente la percezione, essa costruisce nessi
che allargano lo spazio ristretto dell’immediato e consentono di vedere l’accaduto come manifestazione parziale e provvisoria di un altro accadere, come apertura per un’altra possibilità.
L’immaginazione ci ricorda che ogni manifestazione è anche adombramento dal momento che la nostra coscienza è sempre coscienza incarnata, situata cioè in
uno spazio e in un tempo precisi e per questo soggetta ad uno sguardo prospettico,
per sua natura limitato.
Come dice MerleauPonty, noi siamo portatori di uno sguardo che coglie le cose
per lati e per facce, cioè per adombramenti e per profili.
Nella percezione infatti si danno solo certi aspetti che rinviano ad altri aspetti
per completare il loro stesso senso. La presenza evoca dunque l’assenza e l’unità della cosa risiede proprio nel nesso che collega ciò che è manifesto al possibile delle sue diverse e successive manifestazioni. L’immaginazione, componendo la cosa come unità di presenza e assenza, la libera dalla fissità e la apre a quell’ulteriorità di senso custodita nell’adombramento che sempre l’accompagna.
Scaturendo dalla realtà percepita e trascendendo l’immediato nel possibile, essa si sporge sul futuro che trattiene e prolunga l’esperienza
vissuta, orientandola e guidandola, sul filo della memoria, verso il suo avvenire.
L’immaginazione ci riconduce nel cuore stesso dell’esistenza che, a sua volta, è uno “sporgersi”, un rammemorante “uscirfuori” dalla situazione in cui ci si trova di volta in volta, per aprirla a nuove possibilità ed
arricchirla di nuovi significati.
Immaginare è scoprire e portare alla luce nuovi nessi in ciò che ci è più prossimo
e quotidianamente ci accompagna.
Immaginare -direbbe lo Zarathustra di Nietzsche - è suscitare un pensiero
capace di tracciare “circoli e confini sacri”, di costruire cioè un
diverso orizzonte, dove la vita, la terra, il mondo e la pluralità degli
uomini si impongono come ciò che è degno di essere amato e vissuto
fino in fondo nella cura e nel rispetto, perché costituiscono
le condizioni della stessa esistenza umana, il nostro unico bene e la nostra
unica speranza di futuro.
In quest’ottica il pannello “Je ne pense pas, donc je suis?” può essere letto allora anche come invocazione di un pensiero che, nella rammemorazione e nell’immaginazione, richiama le cose dall’oblio
in cui sono state sospinte dalla ragione calcolante e compone parole nuove, capaci
di accogliere, custodire, dire il manifestarsi dei molti in quella tensione al
rinvio che riempie il cuore di stupore e di meraviglia,
Libera Mazzoleni crede che tocchi alla donna abitare questo pensiero e iniziare
a “tracciare circoli e confini sacri”.
Nel suo esserci come diversità, la donna infatti non solo testimonia in ogni momento l’insopprimibile presenza dell’Altro, ma lo mette al mondo, facendolo nascere da sé.
E la natalità, che il suo corpo rende possibile, è sempre l’accadere di un “cominciamento” -direbbe
H. Arendt- che si affida alle sue cure.
Come “luogo del cominciamento” in quanto potere di creazione dell’Altro, la donna dice la vita nella tensione dell’immaginare, svelandola come radicale bisogno di futuro, che interpella il mondo, chiamandolo a costituirsi come dimora accogliente e luogo ospitale di quell’alterità che porta con sé un
nuovo sguardo e un nuovo inizio.
Gli ultimi pannelli, Bagdad, Alfabeto, Gli altri colorano la nostra vita,
tracciano una linea di continuità, che istitusce un legame stretto tra misura, altro linguaggio, pluralità.
Una donna esibisce un’unità di misura, ricordando e ricacciando la guerra nello sfondo, una donna dice la sua passione per l’altro, celebrando la pluralità come dono che colora l’esistenza e, tra le due, l‘immaginazione di un’altra donna, l’artista, traccia le lettere di un diverso alfabeto e inventa i segni di una diversa numerazione, dalla cui combinazione potrebbe nascere un diverso racconto del mondo, dove il futuro si annuncia come nuova possibilità per
il soggetto vivente.
Nel pannello Bagdad l’artista si rappresenta in negativo, tenendo in mano una scultura sumerica, raffigurante un’oca accovacciata che corrisponde ad un’antica unità di
misura.
Lo spazio delimitato è avvolto nei colori di un cielo irreale, trafitto da bagliori carichi di morte; in primo piano avanza una figura che potrebbe evocare tutte le donne, vittime designate di ogni conflitto; nelle sue mani tiene stretta l’unità di
misura ben delineata.
La donna, sagoma fragile nella sua apparente evanescenza, sembra tornare dall’abisso della morte, per contrapporre alla violenza nichilistica della guerra l’istanza
etica della misura, che riporta nel mondo il valore del limite, tutelando la
vita e salvaguardando la terra.
La misura confronta le differenze e le compone nel discorso, dove l’uno sta di fronte all’altro con le sue ragioni, ma insieme all’altro
si impegna a trovare la strada che conduce alla meta comune.
“Zôon logon ekhon”, “l’uomo è un essere
vivente capace di discorso” - diceva
Aristotele - e, quando il discorso muore, trionfa la barbarie, che degrada la
parola a urlo, grido, insulto, suono minaccioso.
La donna, che tiene in mano il simbolo della misura, respinge da sé e
dal mondo la violenza come punto zero del pensiero, imbarbarimento della parola,
immorale doppiezza di un essere umano impoverito e decaduto, che impone i suoi
egoistici e mortali interessi come valori universali.
Tornano in mente le riflessioni di Hegel sul “principio romano”, riassunto nella frase: “Censeo Carthaginem delendam esse”, dove la distruzione dell’altro è decisa
come strategia necessaria.
“Il principio romano si esplica come fredda astrazione del dominio e della forza, come puro egoismo della volontà di fronte agli altri, egoismo che non ha in sé alcuna conclusione etica, ma trae il suo contenuto solo dagli interessi particolari” (Hegel).
Gli altri colorano la nostra vita, scrive
l’artista dentro la brillantezza dell’acrilico, sottolineando la presenza dell’Altro e la gioia dell’incontro e suggerendo nello stesso tempo la via per andare oltre questa “ora senza voce”, in cui la parola è ammutolita,
ingoiata dal grido assordante della menzogna.
Ribadendo e difendendo la pluralità che abita la Terra, rievocando una soggettività che costruisce la sua identità nella relazione, si potrà oltrepassare e lasciare alle spalle la menzogna, che predica il pensiero unico, l’uniformità, il falso universalismo di ogni diritto di parte, la manipolabilità del tutto come segno di progresso e non si avvede che, quando il mondo a tutti comune “viene visto sotto un unico aspetto e può mostrarsi in una sola prospettiva” (H. Arendt), è ormai
vicino alla sua morte.
H. Arendt, a cui l’artista dedica l’ultimo pannello, non si stancava di ripetere che “Gli uomini nella pluralità, gli uomini in quanto vivono, si muovono e agiscono in questo mondo, possono fare esperienze significative solo quando possono parlare e attribuire reciprocamente senso alle loro parole”.
Il lavoro di Libera Mazzoleni, analizzato nella complessità dei suoi molti riferimenti, non è allora chiusura in uno sguardo unilaterale, ma sofferta decisione a narrare il rimosso del nostro tempo e tentativo coraggioso di portare alla luce il possibile di una nuova temporalità, ritmata dalle pause del dialogo, che si svolge sempre nell’ascolto della pluralità dei
racconti e non si stanca mai di cercare parole per persuadere.
Il dialogo, nel suo vigile articolarsi, si affida esclusivamente alla misura
del pensiero che sempre riporta il dire nell’orizzonte del significare, là dove la domanda di senso raccoglie e interroga l’esperienza del vivere che, nella durata, custodisce la profondità della
memoria e il bisogno di futuro.
Il gesto artistico, che ripete il movimento della po_esis come un fare capace
di percorrere e di rivelare la presenza insieme allo sfondo da cui emerge, diventa,
in Libera Mazzoleni, apertura di una soglia, dove l’anima, che sempre porta dentro di sé il mondo, può sostare, ritrovarsi, interrogare, comporre immagini da donare ad altre anime che vivono il mondo non come terra d’esilio,
ma come prezioso e unico luogo del loro soggiorno nel tempo.
Bibliografia:
H. ARENDT, Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1989
G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla Filosofia della storia, Vol. 3, La Nuova
Italia Editrice, Firenze 1967
M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976
M. HEIDEGGER, L’origine dell’opera d’arte, in:
Sentieri interrotti, La Nuova Italia Editrice, Firenze1979
M. HEIDEGGER, La questione della tecnica, in: Saggi e discorsi, Mursia,
Milano 1985
K. JASPERS, La bomba atomica e il destino dell’uomo, Il Saggiatore,
Milano 1960
M. MERLEAUPONTY, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano
1969
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, Adelphi, Milano
1995
F. NIETZSCHE, Ecce homo, Mondadori, Milano 1977
G. SERENY, In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1975
|