TRA LE PIEGHE DEL MONDO
Graziella Longoni
“La Terra destina al fallimento ogni tentativo di
penetrare in essa e condanna al fallimento ogni
indiscrezione calcolatrice. Quest’ultima
potrà
assumere l’apparenza del dominio e del
progresso
sotto forma di oggettivazione
tecnico-scientifica della natura,
ma tale dominio
non è che un’impotenza della volontà.”
M. Heidegger
1. La cancellazione della Terra in
nome del Mondo.
Disorienta l’Atlante che Libera Mazzoleni compone, seguendo apparentemente i canoni della topografia. Lo sguardo riconosce la Terra nella linea precisa e sinuosa dei suoi confini che si affacciano sull’inquietante massa liquida degli oceani, ritrova le forme dei continenti che circoscrivono i luoghi dell’abitare, poi però si perde, smarrito, nella fitta rete di segni che continuamente rinviano ad altro, cancellando l’articolazione in regioni e paesaggi differenziati, il corso azzurro dei fiumi, la macchia gialla dei deserti, il colore bruno delle montagne, il verde intenso delle foreste e quello più tenue delle pianure fertili, facendo scomparire i paesi abitualmente suddivisi in entità statali.
Il Mondo, regno degli utilizzabili che si ripetono uniformando
i luoghi del vivere, copre la Terra e la soffoca, creando un effetto
di spaesamento.
L’artista sembra richiamare la coppia concettuale Terra/Mondo, già tematizzata da Heidegger, per offrire un Atlante che non è semplice raccolta di carte geografiche, né descrizione di Stati nazionali, ma fotografia di una tensione che si è consumata in rottura e prevaricazione di una parte sull’altra. Nella rottura la Terra giace come “fondo” predisposto all’impiego, all’uso e al consumo dal sogno prometeico dell’uomo che aspira a dominarla, impiantando su di essa il Mondo, che inaugura la dimensione storica dell’esistenza e si configura nel tempo come il teatro di una civiltà alimentata dai miti del progresso illimitato, garantito dalla tecnica che trasforma l’ente in utilizzabile, in puro mezzo, e lo incontra solo “nel modo d’essere dell’appagatività”,.
“Il Mondo si fonda sulla Terra e la Terra sorge attraverso il Mondo. Ma, riposando sulla Terra, il Mondo aspira a dominarla” , eppure “il Mondo non può distaccarsi dalla Terra se deve, come regione e percorso di ogni destino essenziale, fondarsi su qualcosa di sicuro”.
Libera Mazzoleni, con il suo Atlante, presenta un Mondo che, separandosi dalla
Terra, smarrisce il rapporto che richiamava reciprocamente l’uno e l’altra nella loro diversità, un Mondo sospeso sull’abisso della possibile nientificazione del luogo del nostro soggiornare nel tempo, il luogo accogliente del nostro abitare, un Mondo che ha assimilato la Terra alla sua logica, misconoscendone l’alterità, sciogliendo ogni legame di responsabilità con
essa, piegandola alla misura delle sue scelte economiche, vanificandola e sfigurandola
come fondo inerte da sfruttare e da manipolare.
Richiamando la linea che traccia il confine della Terra conservata nella la sua
forma fisica ma sfigurata nel senso suo proprio che la identifica come dimensione
del provenire delle cose e della loro custodia, l’artista traccia l’Atlante del Mondo globalizzato e lo svela come l’eccesso caotico e ingovernabile di un reale riempito a dismisura di oggetti connotati esclusivamente dalla loro funzione d’uso che li rende precari ed eterni nello stesso tempo in quanto costantemente intercambiabili. L’Atlante dice che il Mondo globalizzato non lascia che la Terra sia perché, leggendola come qualcosa che resiste al suo irrompere impetuoso, declina il suo rapporto con essa come lotta tremenda e infinita per costringerla ad uscire dalla sua “celatezza” e a svelare il suo segreto. Svanisce la nozione di ospitalità, di cura, di custodia insita nei luoghi del vivere e nello stare della Terra e si impone il freddo dominio del puro calcolo strumentale e distruttivo che governa il Mondo, sprofondando ogni vivente nell’instabilità e nell’angoscia di un’insicurezza
senza rimedio.
Questo sembra essere l’esito del cammino percorso dall’Occidente sulla Terra, un cammino che ha creato una civiltà violenta, predatoria, dove il progresso coincide con il consumo smisurato di tutto e con la distruzione sistematica di antichi equilibri ecologici , dove la convivenza con l’altro svanisce nella sopraffazione mortale del potente su chi resiste alla seduzione delle sue menzogne, dove il tempo si contrae in un presente puntiforme, senza profondità, né slancio e il desiderio famelico ingoia ogni cosa, trascinando nel nulla le alterità, “mondializzando” la Terra che, dovendo soggiacere all’ordine artificiale istituito dalla ragione calcolante, cessa di essere richiamo al senso del limite e della misura e svanisce nella grande macchina dell’universo
matematico creato dalla tecno-scienza.
2. L’uniformità violenta
del Mondo globalizzato
Nel suo Atlante Libera Mazzoleni
esibisce l’avvenuta globalizzazione del Mondo, dove ogni ente ci viene incontro nel modo dell’utilizzabilità che lo identifica come mezzo destinato alla manipolazione, dove l’accadere è somma di eventi catturati dalla rete informatica che cancella le distanze, abolisce i confini, creando un orizzonte di superficie su cui scivolano le notizie date in tempo reale, un orizzonte che rende obsoleto ogni commento perché il tempo reale è pura istantaneità senza possibilità di sostare per pensare, interrogare la folla di immagini e di parole, per chiedere il senso e la direzione degli avvenimenti, delle scelte economiche e politiche, per cercare di comprendere perché la fame, lo spreco, la guerra, l’ossessiva creazione del nemico, le armi sofisticate che contaminano i luoghi quotidiani del vivere e continuano ad uccidere anche dopo la battaglia, lo stupro sul corpo inerme delle donne, dei bambini, dei prigionieri, la morte inflitta a migliaia di innocenti, il costante sabotaggio dei gesti di pace possano essere raccontati con l’indifferenza di chi trasforma in necessità l’orrore inflitto in nome e in difesa di una civiltà superiore.
I continenti del mondo globalizzato si richiamano vicendevolmente
nell’equivalenza degli oggetti, il cui possesso garantisce identità fittizie, costruite e mantenute all’interno del livellamento conformistico che il “si” neutro
ed impersonale, eretto a unico Soggetto, impone, irridendo ogni
tentativo di essere diversamente.
“Nessun pastore e un solo gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali: chi sente diversamente va da sé al manicomio” – diceva Nietzsche , tracciando il profilo dell’ “ultimo uomo”, l’uomo democratico, che va fiero della sua scienza, della sua libertà, della felicità conseguita con il benessere, della forza dei suoi strumenti e dei suoi veleni per scacciare la paura, per dormire sonni senza incubi, per continuare a galleggiare nell’indifferenza emotiva, rifiutando ogni responsabilità verso l’altro.
Disseminazione di armi leggere e pesanti, convenzionali e strategiche; proliferazione
di oggetti-simbolo creati dalle multinazionali per uniformare i gusti, trasformando
gli esseri umani in replicanti ignavi protesi al consumo; cellulari in continua
evoluzione per essere sempre meglio reperibili e per raggiungere chi si allontana
dal nostro campo visivo nella speranza di controllare chiunque e di rendersi
presenti dovunque; automobili blindate per nascondersi, per proteggersi e per
attaccare; un mondo pieno di “cose” per uccidere, per consistere, per sentirsi onnipotenti, un mondo che affonda sotto il peso di un superfluo così inquietante
e sinistro da togliere il fiato.
In questo mondo di oggetti, apparentemente solido e indistruttibile, la morte
trionfa, una morte inflitta con una violenza smisurata che si scatena soprattutto
contro il corpo delle donne sul quale il maschio guerriero riversa il suo odio,
la sua rabbia, le sue frustrazioni e la sua miseria con l’intenzione di umiliare il nemico cui la donna “appartiene”, lasciando dentro di lei il segno della sua appropriazione, oppure facendola a pezzi per cancellare l’integrità di
un corpo che, generando la vita, continuamente risorge e mantiene aperta la speranza
in un altro tempo, in un altro mondo.
E là, dove la guerra tace, il lettino cinghiato, per immobilizzare chi è condannato alla pena capitale, ci ricorda che il potere di dare la morte può essere
esercitato in ogni momento e in nome della giustizia.
Nell’immaginario di Libera Mazzoleni il Potere si incarna nella figura di un re rospo con la corona in testa, appollaiato su una scala ai cui piedi ci sono due guardie che sembrano il prodotto di un esperimento di ingegneria genetica, il loro corpo, in parte umano, è dominato
da una testa di uccello con occhi grandi e becco rapace.
Il rospo richiama la melmosità scivolosa e inglobante del pantano, spesso nascosto da una fitta vegetazione di canneti, l’uccello l’immensità del cielo che guarda la terra; il Potere, dispiegandosi tra cielo e terra, frequenta i luoghi limacciosi del basso e l’aperto dello spazio alto; nulla gli sfugge, può riprodursi con qualsiasi mezzo e infiltrarsi in ogni luogo, la sua pervasività è inarrestabile
e senza scampo.
Moloch e feticcio, questo Potere, così imparentato con la morte, risuona come l’anima malata del Mondo globalizzato che si erge come un dio sulle rovine della Terra, chiedendo sottomissione in cambio della felicità e
della sicurezza.
Significativa è la riflessione di Nietzsche sullo Stato, incarnazione
della Forza e del Potere.
“Stato? Cos’è mai?(...) Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri. Esso è gelido anche quando mente; e questa menzogna gli striscia fuori di bocca: - Io, lo Stato, sono il popolo. (...) nulla è più grande di me: io sono il dito imperioso di Dio – così ruggisce la belva. E non solo la gente dalle lunghe orecchie e dalla vista corta gli si inginocchia! (...) Tutto vuole dare a voi, purché voi lo adoriate. (...) Io chiamo Stato il luogo dove si trovano tutti i bevitori di veleno, buoni e cattivi: Stato è dove tutti si perdono (...); Stato è dove il lento suicidio di tutti è chiamato
vita.
Guardate questi superflui! (...) Potenza, essi vogliono, e prima di tutto la
leva della potenza, molto denaro – questi incapaci.
Guardate come si arrampicano, queste agili scimmie! Nell’arrampicarsi si scavalcano a vicenda e così si
trascinano nel fango e nella bassezza.
Tutti quanti vogliono giungere al trono: la loro demenza è credere che sul trono segga la felicità! Spesso è il fango che siede sul trono – e
spesso anche il trono siede sul fango.”
Scimmie che si calpestano tra di loro sono gli scalatori del Potere; scimmie
sono anche i frequentatori delle stanze del Potere, megafoni stonati, che, vivendo
all’ombra dei potenti, ne riproducono i gesti, i discorsi, le menzogne; scimmie i sudditi che imitano i toni e i modi dei loro padroni e scambiano la loro servitù come
il felice privilegio di far parte della corte di chi decide i destini del mondo,
giocando con i sogni e i bisogni degli esseri umani.
Persino l’uomo di Leonardo, che dal centro del mondo decide la forma e la misura di un universo interamente sottomesso al suo potere, diventa maschera deforme dell’umano con il suo corpo sgraziato, gonfio, brutto. Coperto di una nudità rivoltante che esibisce una metamorfosi degli arti inferiori e del volto davvero sinistra, quell’uomo,
oggi artefice del Mondo globalizzato, sembra uscire da un incubo.
3. Estetica anamorfica del perturbante
Con la sua sensibilità di donna e di artista, Libera Mazzoleni porta il suo sguardo lucido e dolente dentro “il cuore di tenebra” che
batte minaccioso nei recessi del Mondo pensato, voluto, prodotto
dal maschio, affascinato dai miti del dominio scientifico e della
forza guerriera.
Con un’operazione simbolica, che evoca e dà corpo a ciò che nell’orizzonte della presenza è oscurato e cancellato dalla luce accecante dell’immediato, l’artista provoca il reale e lo fa emergere, svelandolo e restituendolo nel segno del “perturbante”.
Accogliendo l’invito di Freud ad abbandonare l’estetica come “teoria del bello” per dare vita a un’estetica intesa come “teoria delle qualità del nostro sentire”, l’artista costruisce un Atlante che dà forma e figura all’ambivalenza costituente del “perturbante”, a ciò che nel noto e nel familiare rimane normalmente nascosto e, quando improvvisamente irrompe sulla scena, sconvolge l’equilibrio
in cui normalmente giacciono le cose, suscitando turbamento, spaesamento.
Estetica dell’anamorfico la chiama Lacan nell’ XI Seminario.
L’anamorfosi è un processo di sovrapposizione di una forma ad un’altra, un’operazione di inserimento che decostruisce il già dato
e lo ricompone in modo inusitato, rendendo percepibili immagini e
contesti che altrimenti sfuggirebbero al nostro sguardo.
Mentre riproduce i confini e il corpo della Terra, ripercorrendo
così la superficie nota dell’atlante geografico , Libera Mazzoleni cambia topografia, disegnando su quella stessa superficie figure che fanno emergere un mondo inatteso e l’effetto è davvero
straniante.
Non semplice mimesi dunque, ma diverso incontro con il reale, reso
possibile da un diverso sentire che cambia l’abituale percezione dell’immagine-mondo
L’Atlante del Mondo globalizzato potrebbe essere letto allora come oggetto anamorfico, un oggetto che nasce dalla rottura perturbante del familiare e fa vedere altro. Inizia così un altro percorso, un altro racconto che dice l’indicibile, il non figurabile; dice la fine di quella tensione tra Terra e Mondo custodita dai gesti della cura, dice che il Mondo ha soffocato la Terra, che ogni ente può esistere solo nella funzione di mezzo destinato al consumo; con i suoi dettagli in eccesso continuamente ripetuti e distribuiti su una superficie sfigurata apre una fenditura nella narrazione compatta, logica e rassicurante del cammino di civiltà vittoriosamente percorso dall’Occidente.
E nell’istantaneità del tempo del consumo e dell’informazione
data in un presente che si fa eterno,
l’Atlante del Mondo globalizzato invita a fermarsi, a sostare,
a raccogliersi per riprovare a pensare e a domandare il senso del
nostro abitare la terra e del nostro essere-nel-mondo-con-gli-altri-
presso-le-cose.
Bibliografia
M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in
Sentieri interrotti, tr. P. Chiodi, Firenze 1968
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, tr. M. Montinari,
Milano 1995
S. Freud, Il perturbante, in Opere, a cura di C. Musatti, IX. L’Io e l’Es
e altri scritti, Torino 1977
M. Recalcati, Le tre estetiche di Lacan, in Aut Aut, n° 326,
2005, Il Saggiatore, Milano |
Considerazioni sull’Arte in bicicletta
Libera Mazzoleni
Oggi mi sento un po’ confusa nelle mie maniacali riflessioni sull’arte.
Nel paesino della mia amica, a pochi chilometri dalla mia città, pedalo
su una bicicletta sgangherata, rasentando il luccichio di foglie verdi.
Improvvisamente, immagini instabili e disordinate si dispongono nella mia mente.
Mi chiedo se lo sguardo di una donna impedito da un burqa abbia mai potuto apprezzare le monumentali, austere, plastiche forme dei Budda di Baghram prima che tutta la parete, che tratteneva le gigantesche statue, implodesse nello sguardo immobile dei talebani.
O ancora mi chiedo se le migliaia di giovani donne, che oggi nell’Afghanistan “liberato” si bruciano vive per sfuggire l’orrore di una vita sempre più disumana,
abbiano mai potuto riflettere su questioni estetiche.
Insieme ad un’infinita angoscia per queste donne che con me abitano il mondo e che sento empaticamente così vicine, provo un senso di gratitudine per il mio giorno, per l’aria
trasparente, per i pensieri superflui e occasionali.
Certo, non amo religioni
e metafisiche, scudi protettivi per “scimmie “, uomini subordinati, messaggeri dei potenti, che possono infliggere così tanto dolore, camminando allegramente sul bordo dell’abisso
che ha risucchiato i loro cuori di ghiaccio.
Religioni e imperi hanno anche rappresentato un’ eccezionale opportunità per le forme dell’arte e del sapere. Sarà forse un esempio dell’”eterogenesi dei fini”?
La “Potenza” della bellezza e della sapienza, una volta tanto, finisce per trionfare sulla brutalità del “Potere” ?
Bisogna che presti
più attenzione alla Via.
Quando ero ragazza,
mi affascinava la metafora di innovazione e di libertà che il linguaggio dell’arte
mi pareva custodisse.
Oggi però il mondo è diventato cupo e, forse, la libertà è solo un miraggio inventato dall’insistente
propaganda delle multinazionali del tempo libero e del consumo.
L’onnipresente libertà di comprare!
Allora, dell’arte che resta? “…è solo un fare che si cristallizza in un oggetto, “l’opera” lontana da ciò che davvero conta: quel percorso progettuale con le sue incertezze e le sue determinazioni che lo ha portato ad essere e che non vien mai mostrato?…” (1)
Oppure come dice la Bachmann: “…Allo stato attuale delle cose, noi, a furia di consensi, siamo ormai arrivati al punto che Hermann Broch ha stigmatizzato con una frase irosa. Ma tant’è, vuol dire che ci siamo arrivati. ‘ La morale è morale, gli affari sono affari, la guerra è guerra e l’arte è arte’…”.
(2)
O peggio: “…l’artista è colui al quale tutto è concesso perché abita il non-luogo, il ghetto dell’onnipotenza, caricatura dell’invasato visitato dal dio! Oggi però non si tratta più della perdita del divino ma della perdita del rispetto per la persona umana…” (3)
Riflessioni davvero impossibili per il mio pensiero, non solo perché pedalo
in bicicletta.
La sera, ospite nella
confortevole casa della mia amica, ho cercato di fuggire l’insoddisfazione, l’inconcludenza, l’angoscia
per tutte le risposte che non so dare.
Nel desiderio di evasione ho sfogliato un Atlante e ho cercato nella magia
delle sue pagine le immagini del mondo: nell’azzurro l’estensione immensa degli Oceani, nelle onde il riflesso delle stelle, ho sentito il freddo che viene dai paesi del Nord, ho increspato le dita sull’accidentato
profilo della catena delle Montagne Rocciose, mi sono immaginata il caldo impietoso
del deserto del Sahara e ho desiderato il freddo, la notte e il cielo stellato.
Conservando l’emozione
di quel giorno, volevo ripercorrere e riprodurre la magia di quelle
immagini. Avrei voluto muovermi con fare ludico, spensierato, gioioso
per nascondere tutte le mie ferite.
Non ci sono riuscita.
Nel mio lavoro emergono voci dissonanti che abitano il mondo e lo rendono inquieto.
“Atlante”, forse non è un opera riuscita, ma è vitale nel disordine dei contenuti, nella forma neo-pop, nel suo aspetto demodé. E’ un opera che vive degli errori, dell’incertezza, della determinazione di un percorso progettuale, la cui visione è l’antitesi dello sguardo idealistico e metafisico che, nel concetto di “arte per l’arte”, ha preannunciato il “non-luogo” di un’arte sradicata dall’esistenza, oggi così ricorrente e così riscontrabile
in tante opere e in tanti discorsi.
(1) H. Arendt, Che cos’è la libertà?, in Tra
Passato e Futuro, Garzanti Elefanti 1999
(2) I. Bachmann, “ Domande e pseudodomande, in Letteratura come utopia,
Lezioni di Francoforte, Adelphi Edizioni, Milano1993
(3) P. Virilio, La bomba informatica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000
|